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maggio 06, 2013

Giulio Andreotti altro che faldoni, ecco la sentenza–da ricordare - (2a parte).

wojtyla-andreotti3) Il presunto intervento dell’imputato a favore dell’imprenditore petrolifero laziale Bruno Nardini, vittima verso la fine degli anni ’70 di richieste estorsive da parte della ’ndrangheta calabrese, episodio che, secondo l’accusa, proverebbe l’esistenza di un patto di scambio tra Cosa Nostra e Andreotti.
Detto intervento si sarebbe estrinsecato nell’efficace utilizzazione, quale tramite, del capomafia Stefano Bontate perché si adoperasse presso la ’ndrangheta calabrese affinché cessassero le azioni estorsive poste in essere, in quel territorio, ai danni del suddetto imprenditore, grande elettore dell’imputato nel Lazio.
Ma la vicenda era stata riferita solo da Antonino Mammoliti, persona rivelatasi non particolarmente attendibile, non aveva trovato alcuna conferma nelle dichiarazioni dei numerosi collaboratori di giustizia escussi nel dibattimento e, anzi, era stata radicalmente smentita dalla deposizione degli altri protagonisti e, in particolare, dai diretti interessati.
4) Il regalo di un quadro a Giulio Andreotti da parte dei capimafia palermitani Stefano Bontate e Giuseppe Calò, vicenda risultante dalle dichiarazioni di Francesco Marino Mannoia e che, nella prospettazione dell’accusa, dimostrerebbe l’esistenza, alla fine degli anni ’70, di rapporti tra Giulio Andreotti ed esponenti di Cosa Nostra.
Nella trattazione dell’argomento è stato fatto richiamo, quali possibili elementi di riscontro, alle dichiarazioni dell’avv. Antonino Filastò, della gallerista Angela Sassu, del dr. Domenico Farinacci e del defunto on. Franco Evangelisti, di alcune delle quali, secondo il consueto metodo espositivo, sono stati testualmente riportati nella sentenza ampi brani.
La sentenza di primo grado ha definito il quadro probatorio acquisito sul tema incompleto e viziato da incongruenze insanabili, che ha puntualmente evidenziato nel corso della motivazione.
5) Il presunto incontro che sarebbe avvenuto a Roma tra l’imputato, Gaetano Badalamenti, uno dei cugini Salvo e Filippo Rimi allo scopo di “aggiustare” il processo a carico di quest’ultimo, celebratosi, nei vari gradi di giudizio, a Perugia e a Roma tra il 1968 ed il 1979.
La vicenda era stata riferita da Tommaso Buscetta, le cui dichiarazioni sono state, però, ritenute viziate da estrema contraddittorietà e manifesta genericità. Inoltre il Tribunale, disattendendo la tesi del P.M., ha ritenuto che la disamina critica delle dichiarazioni sul punto di Francesco Marino Mannoia, di Vincenzo Sinacori, di Salvatore Cucuzza, di Giovanni Brusca, di Francesco Di Carlo e di Salvatore Cancemi (tutte puntualmente riferite anche in modo testuale) conduceva all’unica conclusione che la tesi di Buscetta, piuttosto che trovarvi sicuro riscontro, avesse ricevuto palesi e molteplici smentite.
Significativamente, il Tribunale ha rilevato che divergenze e contraddizioni nelle deposizioni esaminate avevano cominciato ad emergere persino riguardo alla fase processuale nella quale l’intervento sarebbe stato svolto.
6) Le dichiarazioni di Tommaso Buscetta sul caso Moro e sull’omicidio del giornalista Carmime Pecorelli, fatti, secondo il dichiarante, intrecciati tra loro.
Tale disamina è stata effettuata ai limitati fini della verifica di eventuali riflessi sul reato associativo, essendo competente, per la cognizione dell’omicidio del giornalista, l’Autorità Giudiziaria di Perugia. Pertanto è stata accantonata ogni approfondita analisi sulle vicende relative all’interessamento di Cosa Nostra per la liberazione dell’on. Moro, sequestrato dalle Brigate Rosse, avendo, peraltro, lo stesso Buscetta affermato esplicitamente, già nel corso delle sue dichiarazioni al P.M. del 6 Gennaio 1993, che il coinvolgimento dei cugini Salvo e, quindi, dell’imputato in tali iniziative, da attuarsi con il tramite di Cosa Nostra, era frutto di una sua deduzione, nulla risultandogli di specifico.
Nella trattazione sono stati richiamati ampi stralci del c.d. memoriale Moro, passi di articoli di stampa apparsi sulla rivista “OP” e le dichiarazioni di Buscetta, del m.llo Angelo Incandela, di Fernando Dalla Chiesa, di Franca Mangiavacca, dell’on. Egidio Carenini, di Santo Sciarrone, del col. Angelo Tadeo, dell’on. Francesco Evangelisti, del gen. Nicolò Bozzo, dell’on. Virginio Rognoni, di Paolo Patrizi e di Maria Antonietta Setti-Carraro.
All’esito, il Tribunale ha concluso che, in ordine alla prospettata causale legata ai pretesi fastidi che il giornalista, con i suoi articoli e con quant’altro avrebbe potuto rendere pubblico, avrebbe arrecato al Sen. Andreotti, le risultanze processuali avevano evidenziato l’insussistenza di elementi certi e univoci comprovanti l’ipotesi accusatoria.
7) Gli incontri che sarebbero avvenuti tra l’imputato e l’esponente di Cosa Nostra Michele Greco a Roma nella saletta riservata dell’Hotel Nazionale, ove Andreotti si recava spesso per assistere a proiezioni cinematografiche.
Essi erano risultati dalle dichiarazioni dell’imprenditore palermitano Benedetto D’Agostino e ulteriore materiale probatorio era stato tratto dalle dichiarazioni del com. Domenico Farinacci, di Massimo Gemini e di Giovanni Brusca, nonché dalle indicazioni tratte dalle agende dell’imputato.
Anche in proposito la sentenza di primo grado è pervenuta alla conclusione che, non essendo stata adeguatamente riscontrata, la dichiarazione “de relato” di Benedetto D’Agostino era insufficiente per affermare l’esistenza di rapporti diretti e personali tra Giulio Andreotti e Michele Greco.
8) L’incontro che sarebbe avvenuto nella primavera – estate del 1979 in un albergo di Catania tra l’imputato e l’esponente di Cosa Nostra Benedetto Santapaola, con la partecipazione dell’on. Salvo Lima, incontro risultante dalle dichiarazioni di Vito Di Maggio.
Esse sono state ritenute incerte, non riscontrate, ma anzi incompatibili con altri elementi acquisiti al processo, per cui il Tribunale ha concluso che l’incontro non era avvenuto.
9) L’omicidio del Presidente della Regione Sicilia Piersanti Mattarella. In tale quadro sono stati esaminati gli incontri dell’imputato con Stefano Bontate e altri esponenti di Cosa Nostra a Catania e a Palermo. Infatti, secondo la tesi del P.M., fondata soprattutto sulle dichiarazioni di Francesco Marino Mannoia, sussisterebbe una stretta relazione tra questo omicidio, avvenuto a Palermo il 6 gennaio 1980, e due incontri del sen. Andreotti con esponenti di primo piano di Cosa Nostra.
Il Tribunale ha rilevato che la deposizione di Marino Mannoia andava valutata alla stregua dei criteri dettati dall’art. 192, comma 3, c.p.p. e che la verifica doveva essere particolarmente rigorosa anche perché le indicazioni del collaboratore erano assolutamente isolate, non essendo state confermate da altre fonti. Occorreva, dunque, verificare quali fossero i riscontri acquisiti a conferma dell’attendibilità del dichiarante e, in proposito, veniva sottolineato che, tanto più generica era risultata la propalazione, tanto più solidi e inequivoci avrebbero dovuto essere i riscontri.
Alla luce di queste premesse, ha ritenuto che le dichiarazioni accusatorie, non esenti da genericità e contraddittorietà, non fossero confortate da adeguati riscontri e che, anzi, la presenza di Andreotti in Sicilia, nei giorni in cui si sarebbe potuto verificare il primo incontro, fosse incompatibile con gli impegni altrove dello stesso documentalmente provati e che la data del secondo incontro fosse rimasta assolutamente indeterminata e non ricostruibile, stante la vastità del possibile arco temporale.
 
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