La questione greca viene affrontata sempre più in termini economici e sempre meno in termini politici, perpetuando il vizio di fondo di una intesa continentale possibile a patto che resti lontana ogni effettiva rinuncia alle singole sovranità nazionali fosse pure nel contesto di una unione federale. Prendendo spunto da una famosa definizione di Sandro Pertini, osserviamo che ancora una volta prevale l’Europa dei mercanti su quella dei popoli.
Eppure non ci vorrebbe molto a comprendere che, continuando di questo passo, l’alternativa alla inevitabile disgregazione eurocratica sarà lo spostamento strategico su altri versanti e segnatamente su quello orientale.
Il disegno di Charles de Gaulle che propugnava una Europa dall’Atlantico agli Urali si avvicina secondo un percorso diverso da quello immaginato ma non per questo meno efficace. La fallimentare e miope visione monetaristica soffoca nell’immediato singoli paesi, ma è destinata a trascinare nella rovina tutti gli altri sconvolgendo quei faticosi equilibri costruiti dal dopoguerra ad oggi.
Il referendum in Grecia offre una straordinaria opportunità a un popolo al quale si stanno inchinando i vari leader non solo europei ma addirittura mondiali, da Hollande a Merkel e Cameron, ma anche Obama e persino le autorità cinesi. La scelta è ancora una volta tra la fame e la libertà e non è affatto scontato che la prima prevalga nel paese che ha insegnato la democrazia al mondo e lo ha guidato nel cammino verso la civiltà, cui non è certo estraneo l’apporto giuridico partito da Roma. I due anelli deboli dell’economia europea, ammesso che proiettino intorno a sé le ombre delle incertezze congiunturali, sono proprio quelli che hanno donato a tutti la luce del progresso.
Si ragiona di partite e contropartite contabili (peraltro avvilite in una misera frazione percentuale rispetto alla complessiva economia continentale) e incredibilmente – o perfidamente – si tende a ignorare la natura geopolitica della questione. La Turchia, lungamente relegata all’anticamera dell’Europa, si è alla fine determinata a ricercare spazi nel mondo arabo dove sono ancora vivi gli echi delle trionfali accoglienze riservate a Erdogan che nel suo paese rappresenta le forze islamiche e nell’area mediorientale si contrappone alla teocrazia iraniana.
La Russia, che sconta con l’embargo le proprie iniziative annessionistiche prima in Crimea e ora in Ucraina, ha gli strumenti e i mezzi per condizionare le economie degli altri stati, che già soffrono per le riduzioni dell’interscambio commerciale. Un’entrata della Grecia nell’orbita russa, benedetta dalle comuni radici ortodosse (come d’altronde in Bulgaria e Romania) e rafforzata dal provvidenziale apporto di meno di un pugno di dollari ma molto più di un pugno di rubli, potrebbe incoraggiare altri paesi nella stessa scelta, bilanciando l’uscita delle repubbliche baltiche Lituania, Estonia e Lettonia, ma soprattutto degli ex satelliti sovietici come Polonia, Ungheria e Cecoslovacchia, che sarebbero indotti a riposizionarsi in uno scenario dagli imprevedibili sviluppi.
L’unica via di uscita è la trasformazione federale dell’Europa, sempre più urgente per evitarne l’inarrestabile declino. Ma qui l’ostacolo è paradossalmente costituito dalle istituzioni, nelle quali continuano a prevalere le motivazioni particolari dei singoli paesi rispetto agli interessi generali, con il rischio immediato di sconvolgere il sistema monetario comune e, a seguire, di distruggere la unione politica. Non a caso Eugenio Scalfari ha sintetizzato il problema richiamandosi all’Amleto e ponendolo nei termini essenziali dell’essere o non essere.
Viviamo in diretta una sorta di negazionismo, che non riguarda più le indicibili e altrettanto indimenticabili nefandezze dell’ultimo conflitto mondiale, ma la stessa realtà che si svolge sotto i nostri occhi. Le tensioni centrifughe si manifestano con crescente intensità nell’intero continente, nella Catalogna secessionista non meno che nel Galles britannico, e si incrociano pericolosamente con le tendenze xenofobe alimentate dall’ignavia generalizzata dinanzi al fenomeno delle migrazioni e dei sottostanti drammi umani. Eppure la gente continua a credere nell’Europa, ma si ribella alle impostazioni tecnocratiche che la soffocano producendo i desolanti risultati di cui la crisi ellenica è la cartina di tornasole o meglio la punta dell’iceberg. Il referendum cui viene chiamato il popolo greco è per un sì o un no a questa Europa, che si presenta e agisce come la negazione di se stessa; ma la posta in gioco è il nostro comune destino e viene da sperare che un responso negativo possa scatenare una controspinta che trasformi l’incubo in un sogno e conduca finalmente alla sua realizzazione.
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La crisi economica della Grecia è parte della crisi del debito sovrano europeo. La crisi inizia ufficialmente nell'autunno del 2009, quando il neo primo ministro George Papandreou rivela pubblicamente che i bilanci economici inviati dai precedenti governi greci all'Unione europea erano stati falsificati con l'obiettivo di garantire l'ingresso della Grecia nella Zona Euro
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