Viviamo un’epoca caratterizzata dalla necessità di una transizione energetica – in verità, una necessità resa tale non tanto dalla consapevolezza delle classi dirigenti dei rischi del cambiamento climatico, quanto più dalle contingenze emerse in seguito alla pandemia di Covid-19 e alla guerra in Ucraina –, un’epoca in cui il termine “sostenibilità” è diventato un mantra per scelte politiche ed economiche, con il rischio di renderlo un contenitore privo di contenuto.
In questo contesto, negli ultimi anni i conflitti ambientali si sono moltiplicati, col fine di denunciare la miopia delle politiche di mitigazione e contrasto al cambiamento climatico da parte delle autorità politiche a livello locale, nazionale e sovranazionale.
Ma il tema delle disuguaglianze ambientali e della detossificazione del pianeta non è nuovo: le sue radici si rintracciano nel corso del Novecento con i movimenti per la giustizia ambientale (environmental justice movement) e i movimenti antitossici (anti-toxic movement), i quali già negli anni Settanta hanno iniziato a tratteggiare linee di continuità tra la questione dell’impronta antropica sugli ecosistemi terrestri e il “razzismo ambientale”.
Più in particolare, quest’ultima espressione – coniata dal reverendo e leader per i diritti civili Benjamin Chavis – si propone di cogliere le forme di discriminazione di tipo razziale nelle decisioni politiche legate all’ambiente, per cui ad esempio le aree in cui vivono le comunità di colore e le minoranze etniche sono bersaglio di localizzazioni di siti produttivi tossici.
È da questo retroterra che originano espressioni come “zone di sacrificio” (sacrifice zone), vale a dire aree in cui si concretizza il ricatto ambiente-lavoro, per cui scelte industriali, disinvestimenti e inquinamento dovuto ai processi produttivi alterano in maniera duratura l’ambiente naturale e la salute umana.
Gli Stati Uniti, per via della forte miscela di razzismo e colonialismo, sono stati tra i principali centri gravitazionali di queste mobilitazioni, le quali sono via via germogliate in altri contesti territoriali.
La presa d’atto dell’urgenza di agire è stata anche recepita recentemente da organismi istituzionali sovranazionali.
Ad esempio, la risoluzione 48/13 del 2021 del Consiglio per i diritti umani dell’ONU ha riconosciuto per la prima volta a livello globale il diritto umano a un ambiente pulito, salubre e sostenibile, sostenendo in un successivo report la necessità di integrare nelle costituzioni nazionali, nelle legislazioni e nei trattati regionali sui diritti umani il diritto a un ambiente non tossico.
La recente pandemia di Covid-19 ha reso esplicite tali criticità, così come le faglie di classe, di genere e di razza lungo le quali si muovono.
Di più: se prima della pandemia crisi ambientali, antropizzazione e urbanizzazione planetaria, sviluppo industriale senza fine in un sistema finito, impatti sulla salute e crisi sanitarie erano tendenzialmente visti come ambiti distinti – o perlomeno la loro relazione era messa tra parentesi – oggi la loro interrelazione è conclamata (al netto dei vari negazionisti).
In questo senso i curatori parlano di era eco-pan-sindemica, caratterizzata da conseguenze letali derivanti dalla combinazione di razzismo ambientale, pandemia e crisi ecologico-sociale.
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