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febbraio 11, 2018

Waterloo una delle più grandi ed importanti battaglie della storia dell'uomo: Il Quid Obscurum.

Tutti conoscono la prima fase di questa battaglia: un inizio torbido, incerto ed esitante, minaccioso per ambo gli eserciti ma più per gli inglesi che per i francesi.

Era piovuto tutta la notte e il terreno era stato sconvolto dall'acquazzone; qua e là, l'acqua raccolta in pozzanghere come tinozze, tanto che in certi punti i carriaggi dell'artiglieria s'immergevano fino agli assi. I sottopancia dei cavalli gocciolavano di fango liquido, e se le spighe di grano e di segala abbattute da quella fila di carri in marcia non avessero colmato le carreggiate e fatto un letto sotto le ruote, qualunque movimento, in particolare nelle vallette dalla parte di Papelotte, sarebbe stato praticamente impossibile.

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La faccenda incominciò tardi. Abbiamo spiegato che Napoleone aveva l'abitudine di tener tutta l'artiglieria in pugno come una pistola, prendendo di mira ora questo ed ora quel punto della battaglia; perciò aveva voluto aspettare che le batterie già pronte potessero muoversi e galoppare liberamente. Bisognava a tale uopo che uscisse il sole e seccasse il terreno; ma il sole non comparve. Non era più l'appuntamento d'Austerlitz. Quando il primo colpo di cannone venne tirato, il generale inglese Colville guardò l'orologio e constatò ch'erano le undici e trentacinque.

L'azione s'impegnò forse con maggior furia di quanto non volesse l'imperatore, dall'ala sinistra francese sopra Hougomont. Nello stesso tempo Napoleone assalì il centro, gettando la brigata Quoit sopra la Haie-Sainte, e Ney spinse l'ala destra francese contro la sinistra inglese, che s'appoggiava su Papelotte.

Dopo la presa della Haie-Sainte, la battaglia fu incerta.

V'è in quella giornata campale, dal mezzodì alle quattro, un intervallo oscuro; il periodo intermedio è quasi indistinto con una oscura mischia: è come immerso nel crepuscolo. Si scorgono in quella nebbia grandi fluttuazioni, un vertiginoso miraggio, l'apparato della guerra d'allora, pressoché ignorato oggidì: i colbacchi impennacchiati, le fonde ondeggianti, le bandoliere incrociate, le giberne colla granata, i dolman degli ussari, i rossi stivali dalle mille pieghe, i pesanti schako inghirlandati di passamani, la fanteria quasi nera di Brunswick mista a quella scarlatta d'Inghilterra, i soldati inglesi, con grossi cuscinetti bianchi di forma circolare, al posto delle spalline, i cavalleggeri annoveresi, col loro elmo di cuoio a liste di ottone e la criniera rossa, gli scozzesi, ginocchia nude e sottanelle quadrettate, le grandi ghette bianche dei nostri granatieri; quadri e non linee strategiche, quel che ci vuole per Salvator Rosa e non per Gribeauval.

Una parte di tempesta si accompagna sempre ad una battaglia. Quid obscurum, quid divinum; ed ogni storico rivela ciò che gli piace, in quelle confusioni. Qualunque sia il piano dei generali, l'urto delle masse armate ha riflussi incalcolabili; durante l'azione, i piani dei due capi entrano l'uno nell'altro e si deformano reciprocamente. Il tal punto del campo di battaglia divora più combattenti del tal altro, come quei terreni più o meno spugnosi, che bevono più o meno presto l'acqua. Si è così obbligati a rovesciare là più soldati di quanto non si vorrebbe; e queste spese sono impreviste. La linea di battaglia ondeggia, serpeggia come un filo, rivoli di sangue non previsti scorrono, le fronti degli eserciti ondeggiano ed i reggimenti, entrando od uscendo, forman capi o golfi, tutti quegli scogli si muovono continuamente, gli uni davanti agli altri. Dov'era la fanteria, sopraggiunge l'artiglieria; i battaglioni sono fumacchi; lì v'era qualcosa e, quando cercate, tutto è scomparso; i vuoti si spostano, mentre avanzano e si ritirano sinistre pieghe; una specie di vento sepolcrale spinge e ricaccia, gonfia e disperde quelle tragiche moltitudini. Che è una mischia? È un'oscillazione: l'immobilità d'un piano matematico esprime un minuto, non già una giornata. Per dipingere una battaglia, ci vogliono quei possenti pittori che hanno il caos nel pennello. Rembrandt vale di più di Van Der Meulen, il quale, veridico a mezzogiorno, mente alle tre. La geometria inganna e solo l'uragano è vero; questo dà a Folard il diritto di contraddire Polibio. Aggiungiamo che v'è sempre un istante in cui la battaglia degenera in zuffa, si fa particolare, si frantuma in innumerevoli azioni singole che, per citare l'espressione dello stesso Napoleone, «appartengono piuttosto alla biografia dei reggimenti che alla storia dell'esercito». Lo storico, in tal caso, ha l'evidente diritto di riassumere; non può afferrare altro che i principali contorni della lotta. A nessun narratore, per coscienzioso che sia, è dato di fissare in modo assoluto la forma di quell'orribile nube che si chiama una battaglia. E questo, vero di tutti gli urti armati, è particolarmente applicabile a Waterloo. Pure, nel pomeriggio, ad un certo punto, la battaglia si precisò.

febbraio 09, 2018

Waterloo una delle più grandi ed importanti battaglie della storia dell'uomo: il 18 giugno 1815.

Come Napoleone è stato il soggetto su cui si è più scritto dopo Gesù Cristo, così la battaglia di Waterloo è stata la più studiata di tutte le battaglie, antiche e moderne. Tutti questi contributi, francamente in eccesso, non hanno aiutato a far chiarezza ma semmai a rendere le modalità dello scontro più oscure. Le tesi su come andò veramente sul campo di Waterloo sono innumerevoli e tutte in contrasto tra loro.

Aveva messo su pancia, i capelli — seppure pettinati alla Bonaparte — non gli coprivano più il cranio ed erano ridotti a un ricciolino sulla fronte. Ma questo non prova che il Generale avesse perso le sue doti di tattico e di stratega, le stesse che gli avevano fatto vincere fino ad allora qualcosa come settanta battaglie.

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Dal romanzo "I miserabili" di Victor Hugo è estratto questo libro che narra di una delle più grandi ed importanti battaglie della storia dell'uomo: "la battaglia di Waterloo".

L'unica critica che si può fare a Hugo è che arrivi quasi a mitizzare Napoleone dedicando poche righe invece ai possibili errori che abbia potuto commettere come ad esempio il voler continuare a cercare di sfondare nel centro della schiera nemica che già nei precedenti attacchi aveva ben resistito. Questo è dovuto soprattutto al fatto che suo padre fosse un napoleonico convinto e che ai suoi tempi erano ancora vivi i ricordi delle imprese di Napoleone.

Grande merito dell'autore è quello di riuscire a dare un'immagine ben precisa al lettore di ciò che Wellington e Napoleone si trovarono di fronte quel 18 Aprile del1818 a Waterloo.

IL 18 GIUGNO 1815.

Se non fosse piovuto nella notte dal 17 al 18 giugno 1815, l'avvenire dell'Europa sarebbe stato diverso. Poche gocce d'acqua in più o in meno hanno messo in bilico Napoleone; per far di Waterloo la fine d'Austerlitz, la provvidenza ebbe solo bisogno d'un po' di pioggia e una nube che attraversò il cielo a dispetto della stagione bastò per il crollo d'un mondo.

La battaglia di Waterloo, e ciò diede tempo a Blücher di giungere, non poté incominciare che alle undici e mezzo. Perché? Perché il terreno era bagnato e bisognava aspettare che si rassodasse un poco, affinché l'artiglieria potesse manovrare.

Napoleone era ufficiale d'artiglieria e ne risentiva. Il fondo di quel prodigioso capitano era l'uomo che, nel rapporto su Abukir al Direttorio, diceva: Il tal nostro proiettile ha ucciso sei uomini. Tutti i suoi piani di battaglia son fatti per il proiettile: far convergere l'artiglieria sopra un dato punto era per lui la chiave della vittoria. Trattava la strategia del generale nemico come una cittadella e la batteva in breccia; tempestava di mitraglia il punto debole; scatenava e risolveva le battaglie col cannone. La balistica era nel suo genio: sfondare i quadrati, polverizzare i reggimenti, rompere le linee, stritolare e disperdere le masse per lui consisteva nel colpire, colpire, colpire senza tregua; ed affidava questo compito alla cannonata. Metodo temibile che, unito al genio, rese invincibile per 15 anni quel cupo atleta del pugilato guerresco.

Il 18 giugno 1815, egli faceva tanto maggior conto sull'artiglieria, in quanto aveva dalla sua parte il numero: Wellington aveva solo centocinquantanove bocche da fuoco, Napoleone duecentoquaranta.

Supponete che il terreno fosse stato secco e che l'artiglieria avesse potuto manovrare: l'azione sarebbe incominciata alle sei del mattino e la battaglia sarebbe stata vinta e terminata alle due pomeridiane, tre ore prima dell'intervento prussiano.

Quale parte d'errore spetta a Napoleone nella perdita di quella battaglia? È imputabile al pilota, il naufragio? O, forse, l'evidente declino fisico di Napoleone si complicava a quel tempo con una diminuzione d'intelletto? I vent'anni di guerra avevan dunque consumato la lama, insieme al fodero? Si faceva malauguratamente sentire il veterano nel condottiero? In una parola, questo genio, quale l'hanno creduto molti storici autorevoli, stava eclissandosi? La sua frenesia celava a se stesso il proprio indebolimento? Cominciava ad oscillare per effetto d'un vento d'avventura che lo fuorviava? Oppure, cosa grave per un generale, stava diventando incosciente del pericolo? In questa classe degli artefici della materia, che si possano chiamare i giganti dell'azione, v'è un'età per la miopia del genio? La vecchiaia non fa presa sui genî dell'ideale: per Dante, per Michelangelo invecchiare significa crescere, per gli Annibale e i Bonaparte significa forse decrescere? Aveva perduto il senso diretto della vittoria, Napoleone? Era già giunto fino al punto di non riconoscer lo scoglio, di non indovinare l'agguato, di non più discernere il crollante orlo dell'abisso? Non aveva il fiuto delle catastrofi? Egli, che nei tempi andati conosceva tutte le strade del trionfo e che, dall'alto del suo cocchio di lampi, le indicava col dito sovrano, aveva dunque, ora, l'istupidimento sinistro di condurre verso i precipizî il tumultuoso equipaggio delle sue legioni? Era preso, a quarantasei anni, da una follìa suprema? Quel titanico cocchiere del destino non era più che un gigantesco scavezzacollo?

Noi non lo crediamo. Il suo piano di battaglia era, per ammissione di tutti, un capolavoro: puntar diritto sul centro della linea alleata, fare una breccia nel nemico, tagliarlo in due, buttare la metà britannica su Hal e la metà prussiana su Tongres, fare di Wellington e di Blücher due tronconi, impadronirsi di Mont-Saint-Jean, prendere Bruxelles, gettare il tedesco nel Reno e l'inglese nel mare. Tutto ciò, per Napoleone, stava in quella battaglia; in seguito, si sarebbe visto il da farsi.

È inutile dire che non pretendiamo far qui la storia di Waterloo. Se una delle scene generiche del dramma che stiamo raccontando si riallaccia a quella battaglia, non per questo siffatta storia è compito nostro; del resto questa è già stata fatta, e magistralmente, da Napoleone sotto un punto di vista, e da una intera pleiade di storici, sotto un altro. Per quel che ci riguarda lasciamo gli storici alle prese fra loro; noi siamo solo un testimone in distanza, un viandante nella pianura, un cercatore, chino su questa terra impastata di carne umana, che, forse, prende per realtà le apparenze; non abbiamo il diritto di tener testa, in nome della scienza, a un insieme di fatti nei quali v'è certo il miraggio e non abbiamo né la pratica militare, né la competenza strategica che autorizzano un sistema. Secondo noi, una concatenazione di casi domina dapprima a Waterloo i due capitani; e, quando si tratta del destino, misterioso accusato, giudichiamo come il popolo, giudice ingenuo.

Coloro che vogliono figurarsi chiaramente la battaglia di Waterloo, non hanno che da stendere sul suolo, col pensiero una A maiuscola. La gamba sinistra dell'A è la strada di Nivelles, la destra la strada di Genappe e il taglio dell'A è la strada in trincea che va da Ohain a Braine-l'Alleud. Il vertice dell'A è Mont-Saint-Jean, dove si trova Wellington; la punta sinistra inferiore è Hougomont, dov'è Reille con Gerolamo Bonaparte; la punta destra inferiore è la Belle-Alliance, dove si trova Napoleone; un po' al disotto del punto in cui il taglio dell'A incontra la gamba destra, si trova la Haie-Sainte, mentre il punto medio del taglio indica il punto preciso in cui fu detta l'ultima parola della battaglia. Là venne collocato il leone, simbolo involontario del supremo eroismo della guardia imperiale.

Il triangolo compreso nella parte superiore dell'A, fra le gambe e il taglio è la spianata di Mont-Saint-Jean: la disputa di quella spianata fu tutta la battaglia.

Le ali dei due eserciti si stendono a destra e a sinistra delle due strade di Genappe e di Nivelles, d'Erlon di fronte a Picton, Reille di fronte a Hill. Dietro la punta dell'A, dietro la spianata di Mont-Saint-Jean, v'è la foresta di Soignes; quanto alla pianura, ci si figuri un ampio terreno ondulato, in cui ciascuna piega domina la seguente, salendo tutte verso Mont-Saint-Jean e facendo capo alla foresta.

Due schiere nemiche sul campo di battaglia sono due lottatori. È un corpo a corpo, in cui ciascuno cerca di far sdrucciolare l'altro; ci si aggrappa a tutto, e un cespuglio è un punto d'appoggio, come l'angolo d'un muro è un sostegno. Per la mancanza d'una bicocca alla quale addossarsi, un reggimento cede; un lieve pendìo, una piega del terreno, un sentiero provvidenzialmente trasversale, un bosco o un precipizio possono arrestare il tallone di quel colosso che si chiama un esercito ed evitargli d'indietreggiare. Chi esce dal campo è battuto. Quindi per il capo responsabile, la necessità d'esaminare il più piccolo ciuffo d'alberi e d'approfondire il minimo risalto.

I due generali avevano attentamente studiato la pianura di Mont-Saint-Jean, detta oggi di Waterloo. Fin dall'anno precedente, Wellington, con previdente sagacia, l'aveva esaminata come possibile località da grande battaglia; su quel terreno e per quel duello, il 18 giugno, Wellington aveva il lato buono, Napoleone quello cattivo. L'esercito inglese era in alto, l'esercito francese in basso.

Tratteggiar qui l'aspetto di Napoleone a cavallo, col cannocchiale in mano, sull'altura di Rossomme, all'alba del 18 giugno 1815, è quasi superfluo: prima che lo si faccia vedere tutti l'han visto. Quel profilo calmo sotto il piccolo cappello della scuola di Brienne, quell'uniforme verde dai bianchi risvolti che nascondono le decorazioni, il pastrano grigio sopra le spalline, l'estremità del cordone rosso sotto il panciotto, i calzoni di pelle, il cavallo bianco colla gualdrappa di velluto purpureo con gli N coronati e le aquile, gli stivali alla scudiera, sulle calze di seta, gli speroni d'argento e la spada di Marengo, tutta, insomma, la figura dell'ultimo Cesare, è viva nelle immaginazioni, acclamata dagli uni, detestata dagli altri.

Quella figura fu per lungo tempo tutta in luce, per effetto di quella oscurità leggendaria che la maggior parte degli eroi sprigionano intorno a loro e che vela sempre, più o meno a lungo, la verità; ma oggi s'apron la via la storia e la luce.

Quella luce che è la storia spietata. Essa ha questa stranezza divina, che, cioè, per quanto sia luce ed appunto perché tale, mette spesso ombre dove si vedevano i raggi e fa dello stesso uomo due diversi fantasmi, uno dei quali combatte l'altro, facendone giustizia. Le tenebre del despota lottano contro il fulgore del capitano; ne scaturisce una misura più esatta nel definitivo apprezzamento dei popoli. Babilonia violata diminuisce Alessandro; Roma incatenata diminuisce Cesare; Gerusalemme sterminata diminuisce Tito. La tirannia segue il tiranno: disgraziato l'uomo che lascia dietro di sé ombre che assumono le sue forme.

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