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agosto 15, 2009

La cifra dell’orrore: il “dirty war index” l’indice della guerra sporca

Il "dirty war index ''«indice della guerra sporca» sintetizza in un unico numero i dati sulle violazioni dei diritti umani perpetrate nelle guerre. Un modo per riflettere sulla brutalità dei conflitti.


George Brassens ci scrisse una canzone macabra, capace di suscitare un sorriso amaro con la denuncia della retorica militaresca dell'eroe, e della guerra come occasione per educare i giovani: elencava le guerre più cruente della storia «ciascuna con qualcosa per piacere, ciascuna con i propri piccoli meriti» per poi ribadi­re al Signor Colonnello che, pur non volendo disprezzarne alcuna, lui preferiva la car­neficina della Prima Guerra mondiale (La guerre du 14-18, per i francesi).


Ora una ricerca appena pub­blicata sulla rivista Plos Me­dicine (della Public Library of Science) parte dall'assunto che negli ultimi decenni si tratta sempre più di una spor­ca guerra, e su questo non c'è dubbio, ma conoscere e studiare in dettaglio ciascuna è utile perché alcune guerre sono più sporche di altre, e la differenza non è di poco con­to: si può misurare in termini di violazione dei diritti umani, in particolare dei soggetti più deboli, e più in generale di im­patto sulla salute pubblica. I due ricercatori inglesi Made-lyn Hsiao-Rei Hicks del King's College di Londra e Michael Spagat del Royal Holloway College di Egham hanno mes­so a punto il Dirty War Index - l'indice della guerra sporca - proprio con l'obiettivo di raccogliere e sintetizzare dati concreti ed estrarne un quadro riassuntivo che possa servire a individuare politiche effica­ci nel contrastare le peggiori nefandezze perpetrate in tem­po di guerra.

Un unico numero per semplificare la com­plessità della guerra
Chiedersi se siano peggiori i crimini in Darfur della guerra civile che ha insanguinato la Colombia, insomma, diventa il presupposto per una riflessio­ne sulla violenza associata a ciascun conflitto. L'idea di riassumere con un semplice indice numerico un fenomeno complesso non è nuova. L'organizzazione delle Nazioni Unite, ad esempio, pubblica annualmente lo Human Development Index che misura l'efficienza dì ciascun paese nel campo dell'aspet­tativa di vita, dell'alfabetiz­zazione e del Prodotto interno lordo procapite. Proprio l'esigenza di comu­nicare, secondo l'editoriale affidato da Plos Medicine a Egbert Sondorp del Conflìct & Health Programme della London School of Hygiene and Tropical Medicine, è uno dei motivi che suggeriscono il ricorso agli indici sintetici, che oltre a facilitare i con­fronti permettono a tutti di farsi un'idea quantitativa su fenomeni altrimenti troppo complessi.


L'editoriale fa notare come basti osservare anche solo una volta le affascinanti im­magini realizzate dal progetto Gap Minder (che si prefigge di «svelare la bellezza del­la statistica per una visione del mondo basata sui fatti», http://www.gapminder.org/) per capire quanto sia diverso l'impatto di una tabella fitta di dati rispetto a una visua­lizzazione capace di mostrare gli elementi più significativi rilevanti "a colpo d'occhio", ini quel caso riassunti in grandi| bolle multicolore. In teoria, spiega Sondorp, tassi di mortalità nudi e erudii in tempo di guerra dovrebbe ro parlare da soli, ma l'espe rienza mostra che non è «Quando i tassi di mortalità risultano molto alti, potrebbe ro essere contestati da coloro che rifiutano il messaggio».

Non un esercizio civico, ma un espediente per comunicare la realtà
È stata questa la sorte i indagini della Croce Ross Internazionale che negli anr della guerra nella Repubblic Democratica del Congo, tra 1998 e il 2004, registrarne rispetto alle attese, ben milioni di morti in più dovi esclusivamente al conflitto come pure di quella che dopo l'invasione dell'Iraq nel 2003 censì 650 mila decessi in più in gran parte diretta conseguenza dell'invasione stessa.

Entrambe le indagini vennero pubblicate sulla prestigios rivista medica The Lancet, questo non impedì contestazioni tali da minare il messaggio principale: «Ovviamente non è semplice condurre studo di popolazione su larga scaa in aree toccate da un conflitto» osserva l'editoriale Sondorp. «Ma alle volte ostacoli maggiori emergono quando si tratta di comunicai i risultati. Un dato di mortali derivante da un'indagine può apparire privo di ambiguità ma i critici tendono a sfruttare la scarsa famigliarità che il pubblico ha con i metodi di lezione del campione, le inferenze derivate dal campione e gli intervalli di confidenza per minare la credibilità del rapporto». Qui potrebbe venire in aiuto un indice come quello proposto da Hsiao-Rei Hicks e Spagat: «Un valore elevato sarebbe significativo di per sé, ma sarebbero possibili an­che confronti, per esempio tra diversi conflitti o tra diverse fazioni nello stesso conflitto» spiega Sondorp.

L'idea molto semplice, che può essere applicata a qualunque parametro oggettivo, consiste nel quantificare i danni diretti apportati alle popolazioni ci­vili: per la mortalità, il dirty war index sarà calcolato divi­dendo il numero dei morti ci­vili per il numero complessivo dei morti causati dal conflitto - combattenti e non - e molti­plicando per cento. Anche se a prima vista può sembrare un esercizio cinico, secondo i promotori questo tipo di calcolo semplificato applicato a diversi parame­tri - dallo stupro alla tortura, dalle esecuzioni sommarie alle stragi di civili, passando per tutte le forme intermedie di violenza, sopraffazione e privazione - ha un effetto sul pubblico generale ma anche sui ricercatori stessi: «In ge­nerale la raccolta di dati sugli effetti che i conflitti hanno sulla salute può mettere in luce pattern violenti (ovvero l'uso più o meno sistematico di specifici comportamenti) che potrebbero non risaltare osservando resoconti aneddo­tici, e che non vengono presi in considerazione seriamente finché non sono disponibili dati quantitativi».

La valutazione dell'impat­to della guerra contro le giustificazioni ideologiche
Rimane il rischio di un ecces­so di semplificazione, perché le profonde differenze sociali, culturali ed economiche tra le parti in conflitto possono dare luogo a indici il cui significato reale non è facile da interpre­tare. Un esempio è l'indice di mortalità femminile nel conflitto israelo-palestinese. Hicks e Spagat hanno analiz­zato i dati raccolti dall'orga­nizzazione non-governativa B'Tselem tra il 2000 e il 2007 e ne hanno estratto dati a prima vista sorprendenti: «Abbiamo osservato che la proporzione di donne uccise era significa­tivamente più elevata quando le forze palestinesi colpivano i civili israeliani (40% del to­tale) che quando le forze pa­lestinesi colpivano la popola­zione civile palestinese (3%), o quando erano gli israeliani a farlo (5%)».


In effetti, riflettendo sulle caratteristiche del conflitto, che vede da un lato un eser­cito regolare e dall'altro atti di guerra condotti a distanza oppure atti di terrorismo, e sulle caratteristiche delle due società contrapposte, l'una che esclude la presenza di donne tra i combattenti e l'al­tra che per converso vede la componente femminile molto presente nella società e nella vita civile (in cui si consuma­no appunto gli attacchi suicidi con esplosivi), quel dato trova una spiegazione. «Quando gli indici di guerra sporca sono usati per para­gonare gruppi combattenti o metodi di combattimento non si deve dare per scontato che quelli con i valori più alti siano semplicemente i più spor­chi, né si deve pensare che indici bassi "non contino"» spiegano i ricercatori. «Gli in­dici riflettono in parte le con­dizioni locali».


Un elemento che fa la diffe­renza è la disponibilità di un sistema sanitario efficiente, che in alcuni casi può mante­nere relativamente bassa la mortalità tra i civili anche in presenza di metodi inaccet­tabili. In altri casi l'elevata percentuale di vittime tra i bambini può dipendere dalla bassa età media della popo­lazione. Di questo gli studiosi cui l'indice è destinato debbo­no tenere conto, senza però cercare di usare compensa­zioni che ne alterino il senso: «I ricercatori non dovrebbero compiere aggiustamenti per considerare fattori di questo tipo quando confrontano gli in­dici in contesti diversi, perché gli attori dei conflitti armati conoscono, o comunque hanno l'obbligo morale di conoscere, le risorse e la demografia lo­cali, e le loro implicazioni sui danni alla popolazione civi­le» scrivono Hicks e Spagat. «Per non uccidere bambini, i combattenti sono obbligati ad assumere cautele maggiori in proporzione quando conduco­no la guerra in mezzo a popo­lazioni con molti bambini. La responsabilità per un esito sporco non è attenuata dalle condizioni locali» affermano. In questo senso, lo strumento che propongono prescinde del tutto dalle ragioni, più o meno astratte, per cui la guerra è condotta per valutare solo i suoi effetti concreti. Per mi­surare quanto è sporca una guerra, le intenzioni di chi usa le armi sono del tutto secon­darie, anche perché tutte le parti in causa affermano di essere animate da buone in­tenzioni.

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«Questi indici possono aiutare noi e il pubblico a distaccarci dalle deformazioni di tipo po­litico e a superare l'istintiva tendenza a negare quando si considerano gli attori o i meto­di di guerra» concludono i due ricercatori inglesi. «Essi pos­sono presentare i dati relativi ai conflitti da una prospettiva nuova, incoraggiando gli atto­ri dei conflitti a riconsiderare i propri metodi di combattimen­to, la propria responsabilità e i propri interessi».

La realtà inaccettabile
La pubblicazione con risalto, nello scorso aprile, di un ampio articolo sul prestigioso New England Journal of Medicine ha sancito in modo inequivocabile l'effetto devastante sulla popolazione civile irachena dei bombardamenti effettuati dalle forze alleate: un gruppo di ricercatori inglesi - tra cui i due ideatori dell'indice della guerra sporca Hicks e Spagat - ha analizzato i dati raccolti con grande cura e dovizia di particolari dal progetto Iraq Body Count (http://www.iraqbodycount.org/), e valutato l'effetto delle diverse armi sulla popolazione civile.


L'uso di mortai e bombardamenti aerei in zone abitate costituisce una violazione delle leggi internazionali, perché confrontato agli altri metodi comporta il maggior numero di morti tra le donne e i bambini: «Politici, strateghi di guerra di tutte le convinzioni, gruppi e società che li appoggiano hanno la responsabilità morale e legale per gli effetti che specifiche tattiche di combattimento hanno sui civili, comprese le armi usate vicino a loro e tra di loro» è la conclusione dei ricercatori.


Daniela Ovadia, Emergency

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