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agosto 15, 2009

protesi_open_souce Un giovane marine americano, che ha perso un avambraccio in Iraq, ha introdotto la logica dell'open-source a un settore stagnante da molti decenni, che ai amputati offre spesso soluzioni insoddisfacenti, o non ne offre alcuna.


Cuando nel mondo oc­cidentale si parla di protesi d'arto, e in particolare delle protesi che devono rimpiazzare un braccio o una mano, ai più vengono in mente sofisticati congegni dalla meccanica raffinata ge­stita da un'ancor più sofisti­cata elettronica, rivestiti di materiali hi-tech che ricordano il tocco della pelle umana. In questo senso, la distanza tra le soluzioni ipertecnologiche dei paesi ricchi e quelle adottabili nei paesi poveri appare incolmabile.


In parte, però, si tratta si una sorta di illusione ottica, giac­ché le protesi dall'aria ultra­moderna e sofisticata lasciano insoddisfatti moltissimi am­putati che le trovano non solo assai costose, ma soprattutto troppo delicate, deboli e fragi­li. In sostanza, belle ma inutili. Senza contare che anch'esse si basano quasi tutte su progetti vecchi di cinquant'anni.

Un'industria poco red­ditizia non muove ri­cerca né investimenti
Di tutto questo si è accorto, sulla propria pelle, il giovane ingegnere biomedico Jonathan Kuniholm, che poco dopo aver fondato nel 2003 una società con un gruppetto di amici co­nosciuti sui banchi dell'Univer­sità in North Carolina era stato inviato appunto a combattere in Iraq.


Pochi mesi dopo, un'imbosca­ta lo privò dell'avambraccio destro. Ricoverato alla Duke University di Durham per una serie di interventi chirurgici. Kuniholm fu poi mandato al Walter Reed Army Medical Center di Washington, dove adattarono al suo braccio sia una protesi mioelettrica assai sofisticata, che trasforma in movimento il più debole se­gnale nervoso, sia una protesi meccanica "convenzionale": di fatto una grossa tenaglia in ac­ciaio da aprire e chiudere per mezzo di una cinghia governata dal braccio o dalla spalla. En­trambe le soluzioni - in teoria da alternare tra normale vita domestica e di relazione e la­vori più impegnativi - rappresentavano lo stato dell'arte nel settore.


Tornato a casa, Kuniholm e i suoi tre soci della Tackle Designs cominciarono a studiare nei dettagli le due protesi con curiosità professionale, avendo conferma della prima impres­sione: si trattava di apparecchi molto rudimentali che non ave­vano beneficiato di alcun reale progresso da moltissimi anni. «Siamo rimasti molto delusi scoprendo che cosa era dispo­nibile» ha ricordato di recente uno dei soci di Kuniholm, Jesse Crossen.


Raccogliendo informazioni in giro, scoprirono che la maggior parte degli utilizzatori di prote­si di braccio non amano quel­la più nuova - per molti poco più che un braccio di bambola, che risponde con lentezza alle sollecitazioni e non permette neppure di tenere in mano una forchetta o aprire una porta - e continuano a preferire l'uncino di acciaio, spartano e antieste­tico, che ha avuto assai poche migliorie dal primo progetto del 1912.


In quanto neoinprenditori. Kuniholm e soci la spiegazione la conoscevano bene: lo sviluppo di un nuovo progetto è un investimento impegnativo, e potenziali clienti delle prote d'arto sono pochi, anche ; negli ultimi anni aumentai molto tra i soldati, che graz alle protezioni sopravvivono seppure spesso menomati -situazioni in cui in passa sarebbero morti sul campo battaglia.


L'innovazione passa dal condivisione gratuit attraverso Intero
Nel caso poi delle protesi ci devono sostituire una man un ulteriore fattore di comp cazione deriva dalla necessi di personalizzarle e adattar caso per caso perché siar davvero funzionali e utili. In teoria, Kuniholm era n posto giusto per risolvere proprio problema: la socie che aveva costituito con i su amici ambiva a favorire -collaborazione con inventori con i docenti dell'Università la progettazione e la realizz zione di piccole invenzioni, e era già cimentata con succesi nella realizzazione di sofisticati strumenti per la chirurg mini-invasiva.


I quattro giovani imprenditi; decisero di cimentarsi con i loro competenze e la loro inventiva, e per farlo pensare che i risultati migliori sarebbero stati  ottenuti  stimolando la cooperazione in tutto mondo, approfittando del fatto  che molti utilizzatori di protesi finiscono volenti o nolenti per dedicarsi al bricolage, per giungere e raggiungere o modificare dettagli al semplicissimo schema meccanico delle protesi.

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Lo strumento più efficace per favorire il lavoro di gruppo non poteva che essere una licenza d'uso di tipo open-source. È così nato il consorzio onli-ne Open Prosthetics Project. (http://openprosthetics.org/). Tutti i files prodotti con i sof­tware di progettazione sono messi a disposizione gratui­tamente per chiunque, con l'unica condizione che lo siano anche tutti i progetti derivati. L'idea è che ciascuno valuti gli eventuali adattamenti necessa­ri alla propria situazione o alle proprie esigenze specifiche e faccia "stampare" un prototipo tridimensionale che con qual­che successivo aggiustamento diventerà la sua protesi perso­nale.

Il primo esperimento sull"«uncino di Trautman», progettato nel 1925
Negli Stati Uniti si calcola che ci siano circa 100 mila persone che hanno perso un braccio o una mano, su un totale di circa 1,7 milioni di amputati, tra cui la maggioranza ha perso un pie­de o una gamba per le compli­canze di una malattia, come il diabete. Questo approccio, tut­tavia, non intende favorire solo gli amputati dei paesi ricchi, facilitando la diffusione di pro­tesi migliori, ma anche i molti amputati dei paesi poveri. Il primo progetto su cui il con­sorzio ha deciso di sperimenta­re questa logica mutuata dagli sviluppatori di software è il cosiddetto «uncino di Trautman», cui molti amputati sono affezionati anche se si tratta di una protesi a dir poco sparta­na, progettata nel 1925 e rea­lizzata senza alcuna cura per l'estetica.

Rispetto alle assai più moderne, sofisticate e co­stose protesi mioelettriche ga­rantisce una robustezza decisa­mente superiore, e per questo è spesso preferita da chi è abituato a poter contare su una stretta potente. Fra l'altro, è una protesi "ad apertura volon­taria", che normalmente viene tenuta chiusa da una molla, per cui la stretta sull'oggetto non richiede alcuno sforzo.


È in genere la prediletta dei reduci della Seconda Guerra mondiale, ma anche di quel­li tornati da una delle tante missioni di guerra americane degli ultimi anni senza una o entrambe le braccia, in propor­zione molto maggiore rispetto al passato per la disponibilità di efficaci giubbotti in kevlar che proteggono gli organi vitali e per la rapidità ed efficienza dei soccorsi medici, che sem­pre più spesso salvano la vita a feriti assai malconci che in altre epoche sarebbero morti sul campo. E comunque è l'uni­ca che indossa volentieri chi fa una vita molto attiva. Da molti anni, però, è uscita di produzione, per cui gli utilizza-tori fedeli hanno continuato a fare di tutto per tenerla in effi­cienza con continue riparazioni, rappezzi e rattoppi di fortuna.

Una progettazione diffu­sa di cui beneficino gli amputati di tutto il mondo
L'Open Prosthetics Project (OPP) ha ottenuto dal produt­tore l'autorizzazione a usare il design originario, si è procura­to un paio di modelli integri -usati da un istruttore nei suoi corsi - e dopo aver realizzato ex novo i progetti al computer ha cominciato a lavorare ai primi prototipi aggiornati: «La realtà è che non c'è un incen­tivo economico tradizionale per lavorare a migliorie delle pro­tesi. Questo non significa che nessuno se ne preoccupi, ma la maggior parte delle persone non ha il denaro né la compe­tenza tecnica per diffondere i miglioramenti che via via è riuscito ad apportare. Il nostro obiettivo è quello di creare un modo per condividere questi sforzi e questi miglioramenti con chiunque ne abbia biso­gno», spiega l'ex marine. I primi risultati della coopera­zione internazionale sono stati molto incoraggianti, soprattut­to perché molte persone hanno unito le forze e le competenze.

Un esempio della sinergia vir­tuosa in qualche modo inne­scata e favorita dallo spirito alla base dell'OPPè il successo ottenuto da un commesso di ne­gozio di Atlanta, Robert Haag, che è riuscito a insegnare al figlio di appena due anni come usare una protesi. Nato con la mano sinistra non formata, il piccolo Michael non riusciva inizialmente a capire che cosa gli venisse richiesto di fare, fin­ché il papa ebbe l'idea di adat­tare al terminale della protesi una canna da pesca giocattolo. Pungolato dal gioco, il bambino ha presto imparato a stringe­re la protesi con i muscoli del braccio sinistro, per riuscire ad afferrare il giocattolo che il papa appendeva per lui all'amo della canna da pesca. L'idea, e il video con la canna da pesca, sono stati subito condivisi sul sito, dove altri potessero fruirne e magari mi­gliorarle.


Altri anche in paesi dove le amputazioni di una mano o di un braccio sono frequenti a causa della guerra o del lavoro in condizioni pericolose, in cui una soluzione low-cost restituirebbe a una vita normale migliaia di persone, anche giovani e giovanissime. «Dobbiamo pensare anche a paesi come Arabia Saudita, India, Cina, Bangladesh e altri ancora, dove si praticano amputazioni punitive».


Fabio Turone, Emergency

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