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settembre 22, 2010

Tbc, un vecchio nemico mai sconfitto, la malattia diventa più aggressiva.

La minaccia oggi è rappresentata da nuovi ceppi del batterio ultraresistenti. Tutti gli antibiotici in uso non riescono a vincere l'infezione. In fase di studio ci sono solo sei farmaci.

Occorrerebbe puntare anche su test di diagnosi più rapidi e su un vaccino efficace. Ma gli investimenti non bastano

Delle malattie infettive curabili è quella con la più alta mortalità. La tubercolosi nell'ultimo secolo ha probabilmente ucciso oltre 100 milioni di persone, nonostante che a partire dagli anni 40 fosse disponibile una terapia per curarla. Ancor oggi il batterio responsabile della malattia, il Mycobacterium tuberculosis che Robert Koch scoprì nel 1882, fa ogni anno 2 milioni di vittime, 5 mila al giorno; e si aggirano sui 9-10 milioni i nuovi casi annuali di infezione nel mondo.

Non bastassero queste cifre a dipingere un cupo scenario, ora si profila un'altra minaccia: l'emergenza di ceppi di batteri della tbc ultraresistenti, ossia contemporaneamente insensibili ai principali farmaci efficaci in uso, che gli esperti chiamano di prima linea (isoniazide e rifampicina) e di seconda linea (fluorochinoloni, più uno dei tre farmaci iniettabili).

Perché sia disponibile un nuovo farmaco (sei quelli in fase clinica) che possa ovviare al problema pare si debba attendere fino al 2011-2012. Nessuna soluzione si profila in tempi rapidi. Un'emergenza, quella dei ceppi ultraresistenti di tbc, già nota ai medici che operano nell'Est europeo e nei paesi dell'Asia centrale, e di recente segnalata anche in Sud Africa, nel distretto rurale di Kwazulu-Natal.

Su circa 1.500 persone seguite dal gennaio 2005 al marzo 2006, riferisce Lancet, 53 si sono ammalate con questa nuova forma aggressiva di tbc e 52 sono morte nel giro di 44 giorni. «Inquietante il fatto che oltre la metà di loro non avesse ricevuto prima alcuna terapia.

Significa che non hanno sviluppato resistenza durante il trattamento, ma che si sono contagiati in partenza con un ceppo ultraresistente, forse anche particolarmente infettivo» dice Martina Casenghi, biologa, che ha redatto per Medici senza frontiere (Msf) un'analisi aggiornata sullo stato dell'arte dei farmaci allo studio per la tbc e sui finanziamenti per ricerca e sviluppo.
Il germe della tubercolosi, che si trasmette per via aerea, una volta inalato raggiunge gli alveoli polmonari ed è catturato da cellule del sistema immunitario, i macrofagi. Lì può restare inattivo, o latente, anche per molti anni. Solo nel 5-10 per cento dei casi la reazione delle difese immunitarie, esattamente dei linfociti T, non riesce a tenerlo sotto scacco e la malattia si manifesta.

Il rischio è maggiore nei bambini più piccoli e in chi è immunodepresso, denutrito e vive in condizioni di igiene precarie. La forma classica dell'infezione è quella polmonare, ma nei malati di aids, che nel 50 per cento dei casi sviluppano la tbc attiva entro due mesi, le localizzazioni extrapolmonari sono più frequenti.

La diffusione di ceppi ultraresistenti in zone come l'Africa subsahariana, dove un sieropositivo su tre è infettato anche con la tbc, rappresenta una seria minaccia per la salute globale. Un'emergenza sottolineata l'ottobre scorso da Medici senza frontiere alla Conferenza mondiale sulle malattie polmonari a Parigi e di cui l'organizzazione, Nobel nel 1999, è tornata a parlare a Milano il 17 novembre in una conferenza internazionale sul tema dell'accesso ai farmaci.

Non è solo un problema di soldi investiti, e quelli per la ricerca sulla tbc nel 2005 sono stati 393 milioni di dollari contro i 2 miliardi ritenuti necessari per sviluppare nuovi strumenti per combatterla efficacemente, ma anche di politiche sanitarie. Un esempio: in Usa il National health institute spende di più per la ricerca sulle armi biologiche, vaiolo e antrace che non per la tbc o la malaria, le due malattie infettive più letali al mondo.

«Si vorrebbe una risposta a questa emergenza come per la sars o l'influenza aviaria. Se non si disporrà al più presto di armi efficaci, nuovi farmaci e test appropriati, rapidi, a basso costo per una più corretta diagnosi, sarà difficile ridurre la trasmissione e controllare la diffusione della ultraresistenza dei nuovi ceppi» precisa Casenghi.

Le medicine oggi in uso sono ancora quelle scoperte tra gli anni 50 e 60. Il test diagnostico, la tubercolina, messo a punto più di un secolo fa, individua solo un malato su due, e il vaccino risale agli anni 20: protegge poco ed è ormai quasi abbandonato.
«In un'epoca in cui le biotecnologie hanno permesso innovazioni incredibili, ci si aspetterebbero progressi maggiori. Purtroppo si pensa che l'infezione riguardi il Terzo mondo, dove non ci sono risorse economiche per acquistare un vaccino per la tbc e quindi non si investe su questo filone di ricerca. Non diversamente vanno le cose per un candidato vaccino per la malaria» si rammarica Maurizio Bonati, epidemiologo al Mario Negri di Milano.

Dei 1.556 nuovi medicinali approvati tra il 1975 e il 2004 solo l'1,3 per cento era per le malattie tropicali e la tubercolosi: corrispondono al 13 per cento del carico di malattia globale. «La logica dei profitti che regola lo sviluppo dei farmaci penalizza inevitabilmente la ricerca per patologie che fanno ogni anno milioni di vittime ma non costituiscono un mercato allettante perché i pazienti non hanno un potere di acquisto.
Vale non solo per malaria e tbc, ma anche per leishmaniosi, chagas, filariosi, schistosomiasi, malattia del sonno» ricorda Nicoletta Dentico, già direttore esecutivo in Italia di Msf, ora impegnata con Drugs for neglected diseases initiative (Dndi), network nato nel 2003.

Per fronteggiare il problema si stanno formando diverse «product development partnership», una è la Tb Alliance, funzionano come laboratori virtuali e lavorano in stretto contatto con istituti pubblici di ricerca, università, industrie farmaceutiche. «Una risposta all'inerzia politica che rende il panorama meno deprimente, ma che risulta insufficiente senza la leadership dei governi, non solo quelli più ricchi» continua Dentico.

La questione della resistenza agli antibiotici nella tbc esiste da quando si è cominciato a usarli. E già da una decina di anni si parla di ceppi multiresistenti, difficili da combattere solo con i due farmaci di prima linea più efficaci a disposizione. Focolai difficili da controllare anche con quelli di seconda linea sono comparsi anni fa nelle prigioni russe e in alcuni ghetti delle megalopoli americane.

«La terapia a questo punto è diventata una combinazione dei vari farmaci disponibili e il trattamento delle forme multiresistenti si è fatto più complesso, più lungo e anche più costoso» dice Issa el-Hamad, coordinatore del Centro di salute internazionale di Brescia. Gli epidemiologi stimano che circa 425 mila, sui 9-10 milioni di nuovi casi di tbc, manifestino resistenza a diversi degli antibiotici usati. Nel 2004 quasi i due terzi di questi sarebbero stati in Cina, India e Russia

La situazione, secondo il Dipartimento Stop Tb, presso l'Oms, tende ad aggravarsi: dal 1990 il tasso stimato di incidenza della tbc a livello globale continua a essere in aumento in maniera lieve ma progressiva (circa l'1 per cento l'anno). In Africa a causa della concomitante epidemia di aids la tbc è in crescita del 5-6 per cento l'anno. Stesso incremento nell'Est Europa, dove l'infezione è aumentata rapidamente dagli anni 90 con il deteriorarsi delle condizioni socioeconomiche.

L'epidemia di aids favorisce e aggrava le coinfezioni tubercolari. Se negli ultimi 60 anni nei paesi industrializzati di Europa e Nord America campagne di prevenzione e terapia hanno permesso la progressiva riduzione dell'incidenza di tbc, nei paesi del Terzo mondo la mancanza di strutture sanitarie, di programmi per il controllo dell'infezione e lo scarso interesse della comunità internazionale hanno fatto fallire tutte le politiche di controllo fino agli anni 80.

L'Oms comincia a occuparsi di tbc nel 1947; all'inizio degli anni 90, quando l'infezione esce dall'ombra e si ripresenta come un'emergenza, adotta una nuova strategia, poi chiamata Dot (Directly observed treatment) che prevede il controllo del medico. Uno dei problemi della terapia è la sua durata, da tre a sei mesi, e la necessità in questo periodo di assumere i farmaci senza interruzioni. «Se si sbaglia a prenderli o a prescriverli, si possono sviluppare resistenze» sottolinea el-Hamad.

I risultati dell'Oms? Al Dipartimento Stop Tb rispondono che se nel 1990 meno di dieci paesi possedevano un adeguato programma nazionale per il controllo dell'infezione, oggi 183 su 211 paesi e territori hanno adottato la strategia Dot. Negli ultimi dieci anni 21,5 milioni di persone sono state trattate con questo programma.

Ma non è stato sufficiente per evitare rischi che, in situazioni estreme, sono inevitabili. In assenza di terapia antiretrovirale (e i farmaci per l'aids sono oggi accessibili nell'Africa subsahariana solo a un malato su sei, dei 4,7 milioni che ne avrebbero urgente bisogno), la tbc resta la più frequente causa di malattia e mortalità nelle persone adulte con l'hiv. Si stima che circa 11 milioni di adulti con aids nel mondo abbiano una coinfezione tubercolare: per il 22 per cento sono nel Sud-Est asiatico e per il 70 nell'Africa subsahariana, dove sette su dieci malati di tbc sono sieropositivi.

Uno degli obiettivi di sviluppo del Millennio lanciati nel 2000 dalle Nazioni Unite, i Millennium development goals, era ridurre l'incidenza delle tre grandi epidemie, aids, malaria e tbc, entro il 2015. Ora, con un budget di 17 milioni di dollari, parte il primo progetto del Fondo globale per la lotta a queste malattie.

Obiettivi ottimistici che spesso sono stati ridimensionati, come è avvenuto per l'aids e l'accesso ai farmaci. Nel 2003, sulla scia del dibattito sull'accesso alle terapie nei paesi più poveri, l'Oms fissò un obiettivo parziale ma ambizioso: garantire entro il 2005 ad almeno 3 milioni di malati di aids le cure salvavita.

La metà di quelli che si stimava ne avessero urgente bisogno nel Sud del mondo. Il risultato è lontano dal traguardo. A dicembre 2005 solo 1 milione 300 mila malati, forse meno, hanno ricevuto gli antiretrovirali che nei paesi ricchi hanno più che dimezzato la mortalità.

«Ci sarebbe urgente bisogno di accorciare i tempi delle terapie. Cure più brevi, non più di sei mesi, renderebbero più facile l'aderenza e il completamento della medesima» dice Casenghi. I presidi sanitari sono spesso troppo lontani e quando la gente sta meglio non va più a prendere i farmaci. Poi? «Occorrono farmaci che si possano assumere con gli antiretrovirali.
La rifampicina, per esempio, può interagire in modo pericoloso con gli antiretrovirali comunemente usati, come la nevirapina e gli inibitori della proteasi. Occorrono inoltre nuove molecole per i ceppi multiresistenti e ultraresistenti. Ma al ritmo dei test clinici attuali, che mettono a confronto un medicinale noto con un altro innovativo, ci vogliono almeno 24 anni per disporre di un nuovo regime terapeutico con più farmaci».

Il vaccino con il virus attenuato del Mycobacterium bovino, il vecchio Bcg, funziona solo nei più piccoli, ma non protegge dalla tbc polmonare di adolescenti e adulti. «Il riemergere dell'infezione in località dove il vaccino viene praticato a tappeto ne rivela i limiti» osserva Casenghi. «Ricerche sono in corso per un vaccino che utilizzi un batterio geneticamente modificato o una sua subunità proteica in grado di prevenire infezioni e che la malattia si riattivi».

Allo studio anche un centinaio di molecole da usare come biomarcatori della tbc: potrebbero servire per monitorare l'efficacia dei farmaci e le possibili ricadute. Essenziali sarebbero il coinvolgimento e la comunicazione tra tutte le iniziative in corso: investimenti, progetti, ricerche. «Una trasparenza che potrebbe aiutare a raggiungere gli obiettivi e ad affrontare l'emergenza» conclude.


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