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novembre 10, 2010

Il petrolio della Haven nei nostri piatti: bonifiche fantasma e pesci ripuliti dal catrame per essere venduti.
Sui fondali davanti a Genova giacciono ancora cinquantamila tonnellate di greggio. Che non fermano i pescatori

Altro che Louisiana, la marea nera di petrolio abita qui. Davanti alle coste tra Genova e Savona più di 50mila tonnellate di greggio giacciono sui fondali. Dimenticate da chi avrebbe dovuto bonificare la zona, inquinano l'acqua, intossicano e ricoprono di una melma grigiastra i pesci che si ammalano di cancro. Solidificato dal tempo fino ad apparire come massi lunari, il petrolio affolla le reti dei pescatori liguri nonostante vadano a gettarle lontano dalla zona off limits.

Eppure, secondo le autorità, qui non dovrebbe esserci traccia del più grande disastro ecologico del Mediterraneo. Quello della superpetroliera Haven, inabissatasi davanti ad Arenzano con 144mila tonnellate di greggio dopo un esplosione che provocò la morte di cinque marinari l'11 aprile del 1991.

Da allora sono passati quasi vent'anni ma gli effetti di incuria o disattenzione, burocrazia o superficialità che denuncia Report in un documentario di Sigfrido Ranucci in onda questa sera, sono evidenti tra quei pesci morenti incatramati dai fondali. Un disastro senza colpevoli visto che la compagnia greco-cipriota è uscita assolta dopo aver addossato le responsabilità al capitano, morto nell'incidente. Un disastro che continua nell'indifferenza, nonostante ricercatori, pagati dallo Stato, abbiamo messo in allerta governo e ministeri della gravità della situazione.

Ma andiamo con ordine. Bastano pochi numeri a raccontare questa storia italiana. All'indomani dell'incidente, gli esperti stimano il danno ecologico in duemila miliardi di lire. L'Italia ne riceve 117 come risarcimento che decide di impiegare così: 32 per bonificare il mare e 60 ai Comuni del litorale come risarcimento. In realtà, di miliardi ne sono stati spesi solo 16 (circa 8 milioni di euro) ma per bonificare parte della Haven - dopo che il governo Berlusconi li aveva affidati nel 2005 alla Protezione civile - certificando poi che le acque erano pulite.

Così non era, evidentemente, ma tanto fa e così gli altri 8 milioni di euro destinati a disinquinare il mare - e attribuiti di nuovo alla Protezione civile nel 2009 - sono stati impiegati per mettere in sicurezza la Stoppani, un'azienda che aveva inquinato di cromo e rame le acque, e in parte per la mobilità dei lavoratori.

Il petrolio sul fondo del mare sembra non interessare, dalla riva non si vede, sulla superficie dell'acqua neanche. Tanto che i 60 miliardi che vanno a risarcire i Comuni vengono impiegati per rifare la passeggiata a mare di Arenzano, mettere a posto le fogne o la zona dell'ex ferrovia.

Eppure gli esperti lo hanno detto più volte nel corso degli anni: manca una mappa dei fondali per capire dove è finito il catrame, c'è rischio per il mare, per la popolazione. Nel 1995, a quattro anni dal disastro della Haven, ad esempio, i ricercatori dell'Istituto per la ricerca applicata al mare, incaricati dal ministero dell'Ambiente di preparare un piano per la bonifica, si calano con un batiscafo fino a 700 metri. E vedono distese interminabili di catrame, pesci negli anfratti di bitume.

"Il problema è che i residui degli idrocarburi sono capaci di indurre cancro. Abbiamo trovato pesci che vivono a stretto contatto col fondo e notato come una specie in particolare, mostrasse sintomi, segni di tumore al fegato". Reazioni? "Si è deciso di fare finta di nulla, come se il problema non esistesse", racconta Ezio Amato, allora responsabile scientifico del governo per la bonifica Haven.

Da allora nulla è cambiato, i pescatori nelle loro reti trovano pezzi di catrame come massi, pesce ricoperto di greggio che devono ripulire con l'olio se vogliono venderlo ma dalla Protezione civile e dal presidenza del Consiglio, dicono a Report, considerano chiusa la vicenda. Solo il ministero dell'Ambiente si dice pronto a raccogliere segnalazioni di inquinamento, "come se non avesse mai visto la relazione dei suoi stessi studiosi 15 anni fa".

Ma il peggio, dice Ranucci, è che la storia della Louisiana potrebbe ripetersi in Italia visto come vengono presentate le domande per trivellazioni in cerca di greggio: da società con sedi fantasma, senza andare sui posti, senza neppure prendere in considerazione che dove si vuole cercare gas o petrolio c'è un vulcano in attività.




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Sudafrica, tra neri e afrikaans guerra per i nomi delle città.
L'apartheid non c'è più ma lo scontro continua. La sfida della decolonizzazione è sulla toponomastica: in 15 anni già cambiate le denominazioni di 850 luoghi. Solo 28 sono diventati boeri. A volte, come nel caso di Pretoria, si è giunti a un compromesso.


Re Makhado, il Leone del Nord, era un despota che abitava nella vallate tra Sudafrica e Zimbabwe, e Louis Trichardt, capo di un gruppo di Voorktrekker, gli afrikaans, si era spinto fin lì per cercare terra alla larga degli inglesi. Tra il monarca nero e il contadino boero non correva buon sangue e presto iniziarono prima le schermaglie, poi le imboscate. Il Leone pensò di sloggiare gli afrikaans con la forza, ma alla fine - era la fine del XIX - vinsero loro. Lì, alle pendici del monte Soutpansberg fu costruita una nuova città, chiamata in suo onore Louis Trichardt.

Tutto avveniva dal 1870 al 1899, ma la storia non finì qui. Ancora oggi si discute su come chiamare la città e dalle battaglie vere si è passati a quelle con carte bollate. Come in molti altri casi, del resto.

Dal 1998 c'è una apposita commissione, il South African Geographical Names Council, che esamina variazioni, casi dubbi, proposte. Dicono le statistiche uscite da poco che nel giro il 15 anni sono stati cambiati circa 850 città o luoghi di interesse generale. Solo 28 sono afrikaans. "Il processo messo in atto riguarda tutti i sudafricani", dice con soddisfazione il ministro della Cultura della vecchia provincia del Transvaal, chiamato ora Gauteng, "il posto dell'oro" in lingua Sotho. Storia, tradizioni, linguaggio fanno parte del patrimonio di un popolo. E anche le controversie. Quando poi ci sono di mezzo africani e gli afrikaans le cronache delle recriminazioni degli uni contro gli altri si sprecano.

La decolonizzazione per mezzo dei nomi è indice di una nuova realtà di fatto, passata attraverso il post-apartheid e la democrazia, ha detto un parlamentare dell'African national congress. Sicuro, "ci sono conflitti e contrapposizioni", ha aggiunto. E pensava soprattutto ai boeri. Secondo il giornale Die Burger, soltanto tra i 2000 e il 2010 sono cambiati 328 nomi o luoghi. Di questi due su tre sono stati mutati dall'afrikaans in altri idiomi.

La maggior parte dei cambiamenti è stata fatta per incontrare i, giusti, reclami africani. Ma ci sono anche i casi mediazione, come Pretoria, un tempo città simbolo del potere afrikaans razzista. Negli ultimi anni ci sono state discussioni e sedute interminabili per cambiarla in Tshwane, poi è stato deciso: si lascia il nome Pretoria, però la metropoli che la comprende si chiamerà Tshwane.

A più di un secolo di distanza neanche la battaglia tra re Makhado e Louis Trichard si è ancora conclusa. Si sa però che nella provincia del Limpopo dove è ambientata la vicenda, per ora hanno scelto una strada simile al caso di Pretoria: la città vera e propria è rimasta Louis Trichardt, la zona che comprende tutti i dintorni si chiama Makhado. C'è però un'altra questione: il re aveva sulla coscienza una serie di atti sanguinosi verso altre popolazioni, questa volta gli Shangaan e i Pedi; i loro discendenti hanno costituito pure una associazione per ricordare i massacri.

In attesa dei ricorsi, gli afrikaans gongolano. Hanno ottenuto un primo risultato: dividere la comunità. Però molti boeri puri e duri incrociano le dita, perché in gioco non c'è solo il nome della loro città. Sulla via che conduce allo Zimbabwe e passa non lontano da Louis Trichardt c'è un tunnel che gli africani, e non solo, odiano con tutto il cuore. E con ragione. E' il Tunnel Hendrik Verwoerd, primo ministro razzista negli anni 60, come ricorda l'insegna a caratteri di scatola che si legge prima di entrarci dentro. Cambierà nome?









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novembre 07, 2010

Biblioteche, contro la crisi ecco l'e-book per tutti.
Da Dante a Ken Follett, prestiti digitali. Il bibliotecario non si muoverà più in magazzini pieni di volumi ma in stanze virtuali. I libri si leggono su Kindle e i-Pad e si sperimentano le nuove strategie per gli utenti.

Il futuro bussa in biblioteca con l'e-book, il libro che non si vede sugli scaffali, che non occupa le stanze. Certi cambiamenti entrano dalle porte secondarie, dai corridoi.

Mentre le grandi biblioteche faticano a guardare avanti ingessate dai tagli alla cultura e dagli organici spolpati, il libro digitale debutta fuori dai monumenti del sapere scritto. Se si vuole trovare qualche pioniere dell'e-book bisogna cercarlo nelle biblioteche comunali: per esempio a Cologno Monzese, in Lombardia, o alla biblioteca Fucini di Empoli, in Toscana.


Con i soliti pochi mezzi, ma con qualche idea nuova. È in quei "laboratori" che si sperimenta la nuova faccia della biblioteca, lì dove i lettori possono uscire con un e-reader in prestito portandosi via in un solo colpo mezzo catalogo: Pinocchio e i Promessi sposi, Moby Dick, ma anche tutto Dante, Pascoli, Alfieri, Verga e un po' di Wu Ming in versione digitale. Un eterogeneo concentrato di cultura, in tasca e gratis.

La biblioteca civica di Cologno Monzese, 120mila volumi e 170mila prestiti l'anno, ha comprato all'inizio del 2010 una quarantina di e-reader, le tavolette elettroniche per la lettura: "Subito c'è stata una corsa a prenotare il Kindle o gli altri supporti digitali - spiega Luca Ferrieri, responsabile della biblioteca - poi siccome avevamo quasi esclusivamente classici, romanzi liberi dal diritto d'autore, l'entusiasmo è andato calando".

Adesso però cominciano i primi acquisti di narrativa contemporanea: "Si debutta con 300 titoli da Maggiani, a Murgia, Ken Follet, Nothomb". Stesso scenario a Empoli, dove gli e-reader sono undici e le prenotazioni vanno fino a febbraio: "Non sono solo i giovani a chiederli - racconta Carlo Ghilli - anzi nella lista d'attesa ci sono soprattutto professionisti e i frequentatori assidui della biblioteca".

Su tutte le "tavolette" sono stati caricati gli stessi romanzi, una sessantina di titoli: "C'è anche Alice nel Paese delle meraviglie con le illustrazioni originali". Poco più di mille euro l'investimento a Empoli, ventimila per il progetto e-book reader di Cologno (metà arrivano da un finanziamento regionale).

"L'obiettivo è avvicinare i lettori ai nuovi supporti tecnologici - prosegue Ferrieri - ma è chiaro che nel futuro non saranno le biblioteche a prestare i Kindle o gli i-Pad: gli utenti verranno da noi o prenoteranno dai nostri siti online gli e-book". Succede già all'estero: "Sì, e non ci sarà nemmeno bisogno di riportare il libro digitale in biblioteca perché il file si "consumerà" o meglio diventerà illeggibile alla scadenza del prestito".


A differenza del libro tradizionale preso in biblioteca l'e-book si può sottolineare, si possono scrivere note a margine, ma quando lo si rende viene resettato e sono cancellati i dati personali. È questa la frontiera? E come si preparano le medie e grandi biblioteche alla metamorfosi culturale? "Siamo come nell'epoca in cui dal cavallo si è passati alle automobili: qualche motore si incepperà, ma non c'è dubbio che il futuro della lettura prevede anche il digitale", dice Mauro Guerrini, presidente dell'Aib, l'Associazione italiana delle biblioteche che con i suoi 4 mila iscritti rappresenta circa il 20 per cento dei professionisti del settore e che oggi a Firenze chiude il suo congresso nazionale.

Ma se cambia il mezzo e cambiano le abitudini dei lettori, anche il bibliotecario è in trasformazione: destinato a muoversi sia lungo i magazzini pieni di volumi, sia nelle stanze virtuali. "Fra i suoi compiti ci sarà anche quello di certificare la qualità di ciò che si trova in rete", prosegue Guerrini. Intanto sono i numeri a descrivere il declino delle 46 grandi biblioteche statali (comprese le Nazionali di Roma e Firenze).

Gli investimenti pubblici a favore delle 46 biblioteche statali italiane negli ultimi cinque anni sono stati dimezzati con un abbassamento del budget da 30 a 17 milioni di euro l'anno e i tagli più consistenti riguardano un settore di vitale importanza come l'acquisto dei libri, passato da 8 a 3 milioni di euro: "Anche sull'informatica le risorse sono state ridotte - conclude Guerrini - . La digitalizzazione del nostro patrimonio culturale è praticamente ferma, ci si affida a Google e all'accordo fatto dal ministero ma, mi chiedo, è corretto affidarsi soltanto a Google?".

 
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novembre 03, 2010

La corsa planetaria all'acquisto delle terre Ma i "cattivi" non hanno tutti lo stesso volto
Sono 42 milioni gli ettari agricvoli acquistati dentro i confini dei paesi in via di sviluppo. A comprare sono fondi d'investimento privati e le banche che li gestiscono, investitori pubblici e Governi. Operazioni con nessuna finalità produttiva, conta solo la rendita, che trasforma milioni di agricoltori in braccianti.

Le cifre conosciute - che restano stime - parlano di un processo di accaparramento di terre ad uso agricolo, attraverso l'acquisto o l'affitto di lungo o lunghissimo periodo, che copre oltre 42 milioni di ettari. Cioè 3,5 volte la superficie agricola utilizzata in Italia.

Il fenomeno percorre vari continenti, compreso il continente europeo, sia all'interno della Unione che nelle ex repubbliche sovietiche, con una dimensione maggiore in Asia. Si tratta di un fenomeno al centro degli interessi e dell'azione di Croceviaterra 1, una Ong che considera il modello di sviluppo dominante - basato sulla crescita intesa solo come consumo e profitto e alimentato dal libero mercato - incapace di considerare le esigenze di uomini e donne dei Paesi del Sud del mondo, così come non è in grado di tener conto della giusta ripartizione della ricchezza e di un uso sostenibile e duraturo delle risorse naturali nei Paesi ricchi. In Italia (sono dati del 2007) poco più del 3% delle aziende controlla il 48% delle terre agricole del paese. Il sostegno all'agricoltura contadina riguarda tutti. In ogni paese. Gli accaparratori, insomma, sono di diversa natura e di diversa dimensione. Vale dunque la pena di fare una piccolo riassunto.

Il profilo di chi compra. Di sicuro ci sono i fondi di investimento privati e le banche d'affari (investment houses, private equity funds, hedge funds) che li gestiscono, ci sono gli investitori pubblici e ci sono gli accordi fra Stati. L'acquisizione di terre, però, non ha in gran parte nessuna finalità immediatamente produttiva, quello che muove gli investimenti è l'accaparramento della rendita, cioè il profitto che si trae proprio dal fatto di acquisire o controllare per un lungo periodo terre agricole. Molte delle risorse investite hanno un legame diretto con lo svilupparsi della crisi finanziaria e con l'immane disponibilità di capitali "di carta" che si liberano continuamente, anche dopo i fallimenti di importanti banche d'affari e i conseguenti interventi riparatori messi in essere dagli USA e dalla Unione Europea, soprattutto. Capitali provenienti da sei paesi europei (in ordine decrescente, Italia, Norvegia, Germania, Danimarca, Regno Unito e Francia) sono tra i maggiori investitori in termini di Investimenti stranieri sulle terre.

L'agrocarburante ruba spazio. Alcune importanti banche europee, rispondendo alle necessità di approvvigionamento dell'Europa in agrocarburanti, promuovono con forza queste produzioni in Africa, togliendo terra alla produzione agricola. Ma anche imprese statali europee investono in terra per la produzione di agrocombustibili o per accaparrarsi fonti d'acqua o possibili giacimenti di materie prime. Niente di nuovo, dunque. Va solo aggiunto che, secondo stime correnti di OCSE/FAO, sui prossimi 10 anni, le industrie agroalimentari dei paesi cosiddetti sviluppati perderanno terreno a vantaggio dell'agroindustrie, collocate direttamente nei paesi emergenti o, più in generale, nei paesi poveri dove materie prime, lavoro e ambiente costano di meno.

Il businnes finanziario sull'agricoltura. Tanto vale allora delocalizzare da subito, magari per mettere le mani su una parte dell'incremento di produzione agricola di cui si parla, pari ad un aumento del 75 % all'orizzonte 2050 per far fronte ad un incremento generalizzato dei consumi alimentari. Insomma, mettere i soldi in agricoltura è molto vantaggioso. Gli speculatori finanziari - che di norma non hanno patria - lo hanno capito prima di altri. Di sicuro prima dei governi.

In difesa dell'accaparramento. Nella mitologia corrente si usano due argomenti per difendere questo tipo di accaparramento. Che le produzioni rappresentano una fonte di reddito per il paese e che questi investimenti, in fine, sono un supporto agli investimenti in agricoltura. In concreto, nel caso in cui effettivamente si avviassero delle produzioni agricole, come nel progetto sviluppato sulle terre del delta del fiume nelle zone semipaludose del Yala (Kenya) 40 mila ettari affittati direttamente dal presidente della repubblica Mwai Kibaki al governo del Qatar per coltivarvi ortaggi da mandare indietro nel Qatar, queste saranno realizzati secondo le regole dell'agricoltura mineraria, specializzata, monoculturale e chimica.

Contadini trasformati in braccianti. Una parte dei contadini trasformati in braccianti avranno salari che non saranno sufficienti ad acquistare cibo in quantità e qualità adeguata ed entreranno nel circolo vizioso dell'insicurezza alimentare e dell'esodo. Viaggio nelle metropoli e poi se possibile l'emigrazione, in Africa o altrove. In questo caso il reddito prodotto degli ortaggi esportati non compenserà la perdita di entrate (in parte in moneta ed in parte in beni di consumo diretto) delle famiglie contadine. Infatti il Kenya, al momento di una recente dura siccità ha dovuto fare appello all'intervento alimentare a sostegno delle popolazioni ed il progetto è venuto fuori nella sua gravità.


L'esempio del Mali. Ma occorre chiedersi anche se questi investimenti stranieri hanno effettivamente una dimensione così rilevante nei confronti dell'economia del paese ospitante da essere irrinunciabili "meglio dell'elemosina". Chi investe davvero in Mali, ad esempio?. In Mali ci sono circo 800.000 famiglie contadine che ad ogni inizio di stagione investono il loro lavoro, le sementi, gli animali, le cure colturali, le sistemazioni dei terreni, il loro mantenimento in buono stato di fertilità. Un calcolo a palmi, con parametri locali potremmo dire che questo investimento vale almeno 3.000 euro per ogni famiglia. Un totale di 2,4miliardi di euro ogni anno. Quale banca d'affari può investire ogni anno la stessa cifra?. Togliere la terra a queste famiglie per cederla ad un "investitore" straniero, di fatto, non fa che diminuire le risorse che sono disponibili per la produzione alimentare del paese.

Poche persone con immense proprietà. Non ci sono "principi" - come sostiene la Banca Mondiale - che possono rendere accettabile l'accaparramento e la concentrazione della proprietà della terra nelle mani di un numero sempre più ristretto di proprietari. Siano essi imprese multinazionali straniere, fondi d'investimento speculativo o élite locali, magari alti funzionari dello Stato.

Per questo la campagna internazionale contro gli accaparramenti condotta da Via Campesina 2, FIAN 3, GRAIN 4 e moltissime altre organizzazioni della società civile deve continuare, anche se per il momento, la proposta della Banca Mondiale è stata messa da parte dai Governi che le hanno negato l'appoggio. Per evitare danni maggiori, occorre che una moratoria internazionale agli investimenti per l'acquisto di terre per migliaia di ettari sia decisa subito dalle istituzioni finanziarie internazionale come la Banca Mondiale ed il FMI - magari alla prossima riunione del G20 - sulla scorta di quanto alcuni paesi (vedi il Mozambico) già stanno facendo, senza il sostegno di nessuno.



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Il supertest che misura la vera intelligenza.
Si basa sulle qualità cognitive come la memoria Il metodo è stato ideato da un gruppo di Cambridge Dalla memoria all'attenzione, dal ragionamento verbale alla pianificazione: sotto esame i "dodici pilastri della saggezza", oltre le capacità logico spaziali di Paola Coppola.

Esplorare tutte le qualità di un cervello. Misurare i dodici pilastri della saggezza oltre le capacità logico-spaziali, testare dalla memoria all'attenzione, dal ragionamento verbale fino alla capacità di pianificare le tante capacità cognitive che servono a fare di una persona anche una persona intelligente.

La sfida è ambiziosa, almeno quanto è controverso l'argomento su cosa sia davvero l'intelligenza, ma questo si propone l'ultimo test elaborato dai ricercatori inglesi del Medical reasearch council's Cognition and Brain Sciences Unit di Cambridge elaborato in base alle scoperte fatte nel campo delle neuroscienze attraverso la risonanza magnetica. Per mettere alla prova le zone del cervello coinvolte nell'elaborazione dei pensieri come le strutture più profonde, tra cui l'ippocampo.

Servono una trentina di minuti per dedicarsi ad associare numeri a caselle, ricordarne le sequenze, individuare le forme e la posizione di disegni. Ogni prova, un pilastro di saggezza: si passa dalla memoria di lavoro visospaziale (basti sapere che, a prescindere dalle qualità di ciascuno, una scimmia ne ha più di uno studente universitario); si continua con il ragionamento verbale (la capacità di formare e trasformare rappresentazioni mentali), e quello deduttivo. E ancora: la rotazione mentale, la capacità di pianificare una strategia per raggiungere un obiettivo, quella di elaborazione visivo-spaziale.

L'attenzione viene messa a dura prova quando si deve associare alla parola "rosso" o "verde", il colore dell'inchiostro con cui è scritta (che può essere rosso o verde, ma non sarà quasi mai lo stesso della parola rappresentata). Ogni prova è a tempo, accumulando risposte corrette il livello di difficoltà cresce.

"Non esiste un test perfetto", chiarisce Stefano Cappa, professore di neuropsicologia all'Università Vita-Salute San Raffaele di Milano, che giudica positivamente quello elaborato dai colleghi inglesi. "Questo si fonda su basi scientifiche solide che riguardano le componenti essenziali del sistema cognitivo ed è costruito non solo in base a osservazioni psicologiche ma su dati neurobiologici". E aggiunge: "Non si può limitare l'intelligenza alla capacità di risolvere in modo efficiente i problemi, bisogna vedere se questo test riesce a predire di più le capacità che servono a ciascuno nella vita reale, dove contano anche l'intelligenza emotiva, sociale".

"Ben venga un test se è utile a descrivere le capacità globali di una persona", commenta Fabio Battaglia, vicepresidente di Mensa Italia, l'associazione dei super-intelligenti (ne può far parte chi ha superato il 98mo percentile della popolazione in un test d'intelligenza specifico) e che a novembre organizza "Brain", la competizione annuale per scoprire nuovi talenti. "La scelta del test dipende dall'obiettivo da raggiungere. Noi testiamo il Q. I. e quindi le capacità logico-spaziali: le persone che selezioniamo hanno da 16 a 70 anni, interessi e formazione diversi ma in comune una capacità logica superiore alla media, spesso associata a una curiosità intellettuale unica, che si nutre di nuovi stimoli".

Alla fine del test elaborato da Adrian Owen si dovrà rispondere a un questionario sullo stile di vita (ore di sonno, consumo di alcol, nicotina e caffeina, frequenza di uso dei videogiochi) prima di scoprire se si è nella media, al di sopra o al di sotto. O sorprendersi di un talento insospettato. I dati raccolti - promettono i ricercatori - serviranno a definire meglio cosa sia davvero l'intelligenza. Chi vuole cimentarsi, trova il test sul sito del gruppo di Owen.


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