Ci mancava solo il gorilla. Dopo la mappatura del genoma umano nel 2000, dello scimpanzé nel 2005 e dell'orango nel 2011, era l'ultimo dei quattro gruppi di scimmie antropomorfe – le ultime da cui ci siamo distinti nell'evoluzione, simili a noi nel corpo e in molti comportamenti - di cui non conoscevamo il genoma. Fino al marzo scorso. Perché tanto entusiamo?
Dalla mappatura del riso o del frumento ci attendiamo colture più resistenti e produttive. Dal genoma del topo o del maiale speriamo di ricavare farmaci migliori e organi di ricambio. Il gorilla e l'orango, in questo senso, non ci servono a molto. E allora? Perché tanto interesse? Semplicemente perché leggere il libro della vita dei nostri parenti più stretti ci racconta cosa ci ha portato su questo mondo, e perché abbiamo avuto questo straordinario successo.
Confrontarci con le specie dei primati affini, da cui la nostra specie, l'uomo, si è separata solo pochi istanti evolutivi fa, ci serve, insomma, per capire chi siamo: qual è la nostra storia naturale; che cosa ci rende unici per linguaggio, intelligenza, cultura, tecnologia. E anche fino a che punto lo siamo davvero.«Lo scimpanzé è stato un grande inizio. Ma i genomi degli altri nostri parenti riveleranno molto di più», commentava "Nature" nel 2005. Il perché è presto detto: se troviamo una differenza tra noi e il più simile dei nostri cugini, sarà una novità scaturita nella nostra evoluzione o nella loro?
Per saperlo occorrono altri termini di confronto. E per questo gli scienziati dello zoo di San Diego, un team internazionale guidato da Aylwyn Scally del Wellcome Trust Sanger Institute britannico, nel 2008 è andato a cercare Kamilah, una gorilla di 35 anni e 136 chili. E ha estratto il suo Dna. Quattro anni dopo, le sue sequenze compaiono su "Nature". E se per certi versi ci chiariscono le idee, per altri sparigliano un po' le carte.
UGUALI, ANZI NO. Cominciamo col dire che, confrontando tutti e quattro i genomi, si scopre che l'uomo differisce dallo scimpanzé per l'1,37 per cento del genoma, dal gorilla per l'1,75 e dall'orango per il 3,4. E questo cosa vuol dire?
«Innanzitutto», spiega Mariano Rocchi, che con Nicoletta Archidiacono e altri ricercatori del dipartimento di Biologia dell'Università di Bari ha partecipato al sequenziamento dello scimpanzé e dell'orango, «la sequenza completa conferma che siamo più simili allo scimpanzé che al gorilla». Ma c'è comunque una frazione non piccola, del 15 per cento del genoma, che ci fa assomigliare parecchio anche al gorilla. E questo perché, nella nostra evoluzione c'è stato un bel po' di via vai genetico. Ad esempio perché la nascita di una specie non è un evento netto e le specie appena separatesi continuano a incrociarsi. E poi c'è il fatto che l'uomo si è separato dagli scimpanze dopo essersi separato dai gorilla. Insomma, i geni dei diversi primati si sono rimescolati un bel po' prima che ciascuno prendesse le sembianze che ha ora.Il nostro genoma si dimostra quindi un complesso mosaico di sequenze di varia origine. E lo stesso vale per l'espressione e il funzionamento dei geni, e quindi dell'organismo. «Una parte della nostra fisiologia è più da gorilla che da scimpanzé», commenta Scally: «Nell'aspetto esteriore, l'organo più simile al gorilla è l'orecchio». Geni utili.
Un altro dato interessante è che circa 500 geni in ciascuna delle quattro specie dei grandi primati hanno avuto un'evoluzione accelerata, il che fa pensare che siano particolarmente importanti. Nel gorilla, uno è coinvolto nella produzione di cheratina nella pelle, e probabilmente ha permesso il forte ispessimento cutaneo che consente ai nostri possenti cugini di camminare sulle nocche. Viceversa, una serie di geni per la mobilità degli spermatozoi è molto attiva nell'uomo e ben poco nel gorilla. L'ipotesi è che in quest'ultimo ci sia poca competizione tra gli spermatozoi perché i gruppi sociali formati da più femmine e un solo maschio garantiscono la monogamia. Se è così, per noi umani i geni attestano abitudini ben diverse.
Una differenza meno gradita riguarda le malattie. Kamilah, e altri esemplari da cui si sono ricavate sequenze parziali, sono in perfetta salute pur possedendo alcune varianti geniche che nell'uomo provocano malattie. Le differenze nella fisiologia e nel background genetico che giustificano il differente effetto delle mutazioni sono ignote e sarà interessante approfondirle per capire meglio le malattie, e magari ricavare idee per affrontarle.
DATAZIONE. A una cosa di certo è servita la lettura del genoma dei quattro grandi primati. Ora sappiamo e con esattezza le date cruciali della nostra evoluzione. Sull'ordine non c'erano dubbi: prima si sono separati gli oranghi, poi il gorilla e infine lo scimpanzé, come attestato dalle somiglianze genetiche. Le date di queste divergenze, però, vedevano in disputa genetisti e paleontologi. I primi misurano i tempi dell'evoluzione in base alle differenze genetiche tra due specie: quante più se ne sono accumulate, tanto più antica dev'essere stata la separazione. Con questo criterio, la divisione tra umani e scimpanzé risalirebbe a 4,5 milioni di anni fa. Ma i fossili mostrano chiare differenze d'aspetto già 6-7 milioni di anni fa.
Scally, ragionando anche sui dati del gorilla, conclude che le stime genetiche vanno corrette per una serie di ragioni. Le generazioni sono diventate man mano più longeve e dunque l'accumulo di mutazioni nel tempo è rallentato; inoltre, come si è detto, le specie appena separatesi continuano a incrociarsi per qualche tempo, riducendo le differenze genetiche. Questo riconcilia i dati genetici e paleontologici: la separazione dei gorilla risale a 10 milioni di anni fa, quella degli scimpanzé a 6 milioni. Ed è una fortuna che l'accordo sia infine giunto, perché il gorilla era l'ultimo tassello di informazione genetica che potevamo aggiungere al puzzle per risolverlo. Unici ma non troppo.
Chi nei genomi cercava le basi della diversità di cui andiamo più fieri, quella intellettiva, per ora resterà deluso. Una disillusione era già venuta dall'orango. Ironicamente, la più sedentaria fra le grandi scimmie ha anche il genoma più pigro, che muta con lentezza a ogni livello, nei geni come nei cromosomi. Proprio ai vivaci riarrangiamenti dei cromosomi era stata attribuita l'evoluzione dell'intelligenza dei primati superiori; ma poiché anche l'orango è intelligente, l'ipotesi salta.
Col gorilla va ancora peggio. Il confronto con lo scimpanzé mostrava che nell'uomo alcuni geni per l'udito e per lo sviluppo cerebrale si sono evoluti molto in fretta. Naturale immaginare che qui fosse la chiave del linguaggio e della nostra abilità intellettiva. Ma ora si vede che anche nel gorilla questi geni si sono evoluti altrettanto in fretta. «I gorilla non parlano, o se lo fanno sono bravi a nascondercelo», scherza Scally, e l'ipotesi perde dunque credito.
«Un tempo si cercavano geni specifici per lo sviluppo cerebrale umano, ma ormai è chiaro che non ci sono», dice Rocchi. «Quel che cambia è che gli stessi geni sono usati diversamente. Per esempio, abbiamo geni per lo sviluppo cerebrale che, a differenza di gorilla e scimpanzé, restano attivi a lungo dopo la nascita: così possiamo avere un cervello più grande nonostante il bacino femminile non molto più largo, che non permette di partorire una testa troppo cresciuta. E' questo il meccanismo che ci ha permesso di evolverci tanto in pochi milioni di anni». Lavori in corso. Come sempre, la mappatura è solo l'inizio del lavoro.
«La sequenza è un traguardo ma è anche una partenza: per capirne il senso bisogna interpretarla», dice Rocchi: «E ci vorrà molto tempo per capire appieno la nostra unicità».Nel tempo, probabilmente, il confronto tra i genomi ci darà molte delle risposte che cerchiamo. Per ora, altrettanto spesso, smonta le risposte semplicistiche che avevamo azzardato con le poche informazioni disponibili. Come del resto stanno facendo le ultime scoperte sui nostri parenti più immediati, gli australopitechi e le altre specie di Homo.
Dalla mappatura del riso o del frumento ci attendiamo colture più resistenti e produttive. Dal genoma del topo o del maiale speriamo di ricavare farmaci migliori e organi di ricambio. Il gorilla e l'orango, in questo senso, non ci servono a molto. E allora? Perché tanto interesse? Semplicemente perché leggere il libro della vita dei nostri parenti più stretti ci racconta cosa ci ha portato su questo mondo, e perché abbiamo avuto questo straordinario successo.
Confrontarci con le specie dei primati affini, da cui la nostra specie, l'uomo, si è separata solo pochi istanti evolutivi fa, ci serve, insomma, per capire chi siamo: qual è la nostra storia naturale; che cosa ci rende unici per linguaggio, intelligenza, cultura, tecnologia. E anche fino a che punto lo siamo davvero.«Lo scimpanzé è stato un grande inizio. Ma i genomi degli altri nostri parenti riveleranno molto di più», commentava "Nature" nel 2005. Il perché è presto detto: se troviamo una differenza tra noi e il più simile dei nostri cugini, sarà una novità scaturita nella nostra evoluzione o nella loro?
Per saperlo occorrono altri termini di confronto. E per questo gli scienziati dello zoo di San Diego, un team internazionale guidato da Aylwyn Scally del Wellcome Trust Sanger Institute britannico, nel 2008 è andato a cercare Kamilah, una gorilla di 35 anni e 136 chili. E ha estratto il suo Dna. Quattro anni dopo, le sue sequenze compaiono su "Nature". E se per certi versi ci chiariscono le idee, per altri sparigliano un po' le carte.
UGUALI, ANZI NO. Cominciamo col dire che, confrontando tutti e quattro i genomi, si scopre che l'uomo differisce dallo scimpanzé per l'1,37 per cento del genoma, dal gorilla per l'1,75 e dall'orango per il 3,4. E questo cosa vuol dire?
«Innanzitutto», spiega Mariano Rocchi, che con Nicoletta Archidiacono e altri ricercatori del dipartimento di Biologia dell'Università di Bari ha partecipato al sequenziamento dello scimpanzé e dell'orango, «la sequenza completa conferma che siamo più simili allo scimpanzé che al gorilla». Ma c'è comunque una frazione non piccola, del 15 per cento del genoma, che ci fa assomigliare parecchio anche al gorilla. E questo perché, nella nostra evoluzione c'è stato un bel po' di via vai genetico. Ad esempio perché la nascita di una specie non è un evento netto e le specie appena separatesi continuano a incrociarsi. E poi c'è il fatto che l'uomo si è separato dagli scimpanze dopo essersi separato dai gorilla. Insomma, i geni dei diversi primati si sono rimescolati un bel po' prima che ciascuno prendesse le sembianze che ha ora.Il nostro genoma si dimostra quindi un complesso mosaico di sequenze di varia origine. E lo stesso vale per l'espressione e il funzionamento dei geni, e quindi dell'organismo. «Una parte della nostra fisiologia è più da gorilla che da scimpanzé», commenta Scally: «Nell'aspetto esteriore, l'organo più simile al gorilla è l'orecchio». Geni utili.
Un altro dato interessante è che circa 500 geni in ciascuna delle quattro specie dei grandi primati hanno avuto un'evoluzione accelerata, il che fa pensare che siano particolarmente importanti. Nel gorilla, uno è coinvolto nella produzione di cheratina nella pelle, e probabilmente ha permesso il forte ispessimento cutaneo che consente ai nostri possenti cugini di camminare sulle nocche. Viceversa, una serie di geni per la mobilità degli spermatozoi è molto attiva nell'uomo e ben poco nel gorilla. L'ipotesi è che in quest'ultimo ci sia poca competizione tra gli spermatozoi perché i gruppi sociali formati da più femmine e un solo maschio garantiscono la monogamia. Se è così, per noi umani i geni attestano abitudini ben diverse.
Una differenza meno gradita riguarda le malattie. Kamilah, e altri esemplari da cui si sono ricavate sequenze parziali, sono in perfetta salute pur possedendo alcune varianti geniche che nell'uomo provocano malattie. Le differenze nella fisiologia e nel background genetico che giustificano il differente effetto delle mutazioni sono ignote e sarà interessante approfondirle per capire meglio le malattie, e magari ricavare idee per affrontarle.
DATAZIONE. A una cosa di certo è servita la lettura del genoma dei quattro grandi primati. Ora sappiamo e con esattezza le date cruciali della nostra evoluzione. Sull'ordine non c'erano dubbi: prima si sono separati gli oranghi, poi il gorilla e infine lo scimpanzé, come attestato dalle somiglianze genetiche. Le date di queste divergenze, però, vedevano in disputa genetisti e paleontologi. I primi misurano i tempi dell'evoluzione in base alle differenze genetiche tra due specie: quante più se ne sono accumulate, tanto più antica dev'essere stata la separazione. Con questo criterio, la divisione tra umani e scimpanzé risalirebbe a 4,5 milioni di anni fa. Ma i fossili mostrano chiare differenze d'aspetto già 6-7 milioni di anni fa.
Scally, ragionando anche sui dati del gorilla, conclude che le stime genetiche vanno corrette per una serie di ragioni. Le generazioni sono diventate man mano più longeve e dunque l'accumulo di mutazioni nel tempo è rallentato; inoltre, come si è detto, le specie appena separatesi continuano a incrociarsi per qualche tempo, riducendo le differenze genetiche. Questo riconcilia i dati genetici e paleontologici: la separazione dei gorilla risale a 10 milioni di anni fa, quella degli scimpanzé a 6 milioni. Ed è una fortuna che l'accordo sia infine giunto, perché il gorilla era l'ultimo tassello di informazione genetica che potevamo aggiungere al puzzle per risolverlo. Unici ma non troppo.
Chi nei genomi cercava le basi della diversità di cui andiamo più fieri, quella intellettiva, per ora resterà deluso. Una disillusione era già venuta dall'orango. Ironicamente, la più sedentaria fra le grandi scimmie ha anche il genoma più pigro, che muta con lentezza a ogni livello, nei geni come nei cromosomi. Proprio ai vivaci riarrangiamenti dei cromosomi era stata attribuita l'evoluzione dell'intelligenza dei primati superiori; ma poiché anche l'orango è intelligente, l'ipotesi salta.
Col gorilla va ancora peggio. Il confronto con lo scimpanzé mostrava che nell'uomo alcuni geni per l'udito e per lo sviluppo cerebrale si sono evoluti molto in fretta. Naturale immaginare che qui fosse la chiave del linguaggio e della nostra abilità intellettiva. Ma ora si vede che anche nel gorilla questi geni si sono evoluti altrettanto in fretta. «I gorilla non parlano, o se lo fanno sono bravi a nascondercelo», scherza Scally, e l'ipotesi perde dunque credito.
«Un tempo si cercavano geni specifici per lo sviluppo cerebrale umano, ma ormai è chiaro che non ci sono», dice Rocchi. «Quel che cambia è che gli stessi geni sono usati diversamente. Per esempio, abbiamo geni per lo sviluppo cerebrale che, a differenza di gorilla e scimpanzé, restano attivi a lungo dopo la nascita: così possiamo avere un cervello più grande nonostante il bacino femminile non molto più largo, che non permette di partorire una testa troppo cresciuta. E' questo il meccanismo che ci ha permesso di evolverci tanto in pochi milioni di anni». Lavori in corso. Come sempre, la mappatura è solo l'inizio del lavoro.
«La sequenza è un traguardo ma è anche una partenza: per capirne il senso bisogna interpretarla», dice Rocchi: «E ci vorrà molto tempo per capire appieno la nostra unicità».Nel tempo, probabilmente, il confronto tra i genomi ci darà molte delle risposte che cerchiamo. Per ora, altrettanto spesso, smonta le risposte semplicistiche che avevamo azzardato con le poche informazioni disponibili. Come del resto stanno facendo le ultime scoperte sui nostri parenti più immediati, gli australopitechi e le altre specie di Homo.
fonte: L’Espresso
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