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novembre 29, 2016

Cuba, il primo giorno senza Fidel Castro, il padre della rivoluzione cubana.
È morto Fidel Castro. Il padre della rivoluzione cubana aveva 90 anni. Ha guidato il paese per quasi mezzo secolo, fino al 2008, quando ha lasciato il potere al fratello Raul. È stato lui ad annunciare la notizia dalla tv di Stato.

Nelle vicende del mondo ci sono i dati materiali, le contraddizioni sociali e politiche, ma nel fare la Storia c’è poi anche la funzione della personalità: che a volte è molto di più del prodotto di determinate condizioni, e che nello svolgimento delle cose butta tutto il peso di un elemento prepotentemente individuale.

Torniamo agli anni cinquanta, e ad una famosa frase. Fidel Castro ha pensato di innescare un tentativo di rovesciare il dittatore Batista dando l’assalto alla caserma Moncada di Santiago. L’azione, il 26 luglio del ’53, fallisce rovinosamente: Fidel si salva ma è catturato, i suoi uccisi, torturati, imprigionati. Nell’ottobre del ’53 davanti ai giudici più che difendersi Fidel attacca, trasforma il processo in un atto d’accusa. Per altri sarebbe già stato sufficiente. Non per Fidel, che fa anche qualcosa di più: inscrive l’assalto nella grande Storia. Afferma con sicurezza: “La Storia mi assolverà”.
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Se altri si sarebbero ridotti a più miti consigli, Castro, una volta liberato, non demorde. Organizza la spedizione del Granma. Più che uno sbarco, nel novembre del ’56 l’operazione del Granma è un naufragio. Gli uomini si disperdono, sono braccati, uccisi, catturati. Fidel si salva anche questa volta per miracolo. Altri si sarebbero dati per vinti, avrebbero cercato di riportare a casa la pelle. Non Fidel. Dopo qualche giorno riesce a riunire un piccolissimo gruppo di combattenti sopravvissuti. E a guidare il primo scontro a fuoco con i soldati di Batista.

Fa di più: “Abbiamo vinto”, annuncia ai suoi guerriglieri. Non lo scontro a fuoco, intende dire: ma la lotta contro Batista. Non è un pazzo: sulla base della sua analisi della situazione cubana, dello stato d’animo della gente, è convinto che il problema della guerriglia è cominciare, e poi la guerriglia vincerà. I fatti gli daranno ragione, ma certo nello sviluppo dei fatti conterà non poco questa sua estrema determinazione. Fidel farà fra l’altro la sua rivoluzione malgrado  il Partito Comunista cubano, che, di osservanza sovietica, una rivoluzione a Cuba non la ritiene possibile e in realtà neanche opportuna.

Facciamo un salto di trentacinque anni. 1994: i primi mesi dell’anno sono in assoluto i più duri del periodo especial decretato per fare fronte al venir meno con la caduta dell’Urss dell’aiuto di Mosca. I cubani, abituati a mangiare e bene, stringono la cinghia, i frigor sono spettralmente vuoti, i mezzi di trasporto pubblici smettono quasi completamente di circolare, la gente va a piedi o con le rare biciclette, i gatti spariscono dalle strade perché vengono mangiati. Le privazioni sono enormi. Qualcuno pensa di salpare con imbarcazioni di fortuna verso la Florida. E’ la crisi dei balseros: durante l’estate un giorno all’Avana vicino al mare scoppia un moto di protesta. Altri si sarebbero tenuti alla larga. Non Fidel. Avvertito di quello che sta succedendo, arriva sul posto con una jeep militare e si rivolge alla gente. La protesta rientra.
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Chi dal ’59 ha guardato con ostilità all’esperienza rivoluzionaria cubana, ha avuto la tendenza ad attribuire a Fidel la responsabilità di qualunque cosa, nella vicenda del socialismo dell’isola: e certamente il suo essere il comandante che ha fatto la rivoluzione letteralmente in prima persona, il ruolo di lider maximo del socialismo cubano, e appunto questa sua personalità prorompente hanno favorito questa personalizzazione. Ma la dinamica dell’esperienza cubana è stata molto più complessa. Entrato nel gennaio del ’59 all’Avana alla testa dei suoi barbudos, Fidel si trova a dover gestire un paese con un gruppo di guerriglieri.

Gli americani scappano, seguiti via via dalla stragrande maggioranza dei tecnici e dei professionisti cubani. Il rapido deteriorarsi dei rapporti con gli Stati Uniti, incapaci di dialogare con quella che all’inizio è solo una rivoluzione democratica, ai quali Fidel ribatte con l’affermazione del carattere socialista della rivoluzione, creano una situazione di tensione con gli Usa  (che poi con Kennedy tenteranno di rovesciare la rivoluzione con lo sbarco alla Baia dei Porci) che rende estremamente delicata le gestione del potere.
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Di chi si può fidare Fidel? Dei comunisti. Gli unici che dispongono di quadri disciplinati e preparati e di una struttura organizzativa. Molti dirigenti e sindacalisti del partito sono di notevole cultura, conoscono bene gli Stati Uniti, che molti di loro hanno visitato già negli anni cinquanta, hanno una mentalità aperta. Ma il partito è fedele a Mosca e di impronta stalinista.

Mentre giovani appena usciti dalle scuole e dalle università vengono avviati a rimpiazzare chi se ne è andato negli Stati Uniti, le nuove necessità di gestione del paese portano a promuovere a quadri negli organismi politici e nei vari aspetti della vita sociale anche persone di poca o nessuna istruzione, spesso provenienti da un mondo contadino retrivo, erede per alcuni aspetti della cultura di una Spagna centralista e reazionaria. Limiti di educazione e ristrettezze culturali che, assieme con la gratificazione di occupare dei ruoli, favoriscono l’adesione ad una impostazione politica e culturale di tipo sovietico e stalinista.

La leadership carismatica di Fidel supplisce a questo deficit di preparazione delle masse e ha in questo contesto d’altro canto la possibilità di dispiegarsi. Ma Castro non è affatto un leader onnipotente, che possa comandare l’isola a bacchetta: da un certo momento in poi per di più all’interno dello stretto abbraccio con l’Urss a cui è costretto per resistere di fronte agli Stati Uniti, Castro deve fare buon viso a cattivo gioco, e fare i conti con il partito, l’apparato, i quadri e le loro dinamiche.
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Difficile pensare che il processo di stalinizzazione della Rivoluzione, particolarmente pesante negli anni settanta, che la stretta sulla cultura, che le vessazioni nei confronti degli omosessuali fossero farina del sacco di Fidel; e che l’uomo che aveva studiato dai gesuiti, che mai interrompe i rapporti con il Vaticano, e che poi negli anni ottanta dialogherà con il gesuita brasiliano Frei Betto nel libro, diffusissimo a Cuba, Fidel y la religion, abbia avuto particolarmente a cuore le campagne di propaganda dell’ateismo.

Già da tempo il problema del superamento di una leadership carismatica derivante dalla personalità di Fidel e da circostanze storiche precise è presente nel dibattito cubano: la legittimazione di Fidel e poi di Raul deriva dal loro aver fatto una rivoluzione armi alla mano, e poi dall’aver guidato il paese in tempi durissimi e aver assicurato ai cubani un “welfare” socialista. Nessuno dopo di loro può rivendicare una legittimazione simile, e nessuno può offrire come loro, con la propria storia, la garanzia di salvaguardare le conquiste della rivoluzione: si pone dunque per Cuba la questione di un rafforzamento di quella che nel dibattito cubano si usa chiamare “istituzionalità democratica”, di una implementazione dei meccanismi democratici e di decisione del popolo. Una prospettiva a cui lo stesso Raul è probabilmente sensibile, ma che incontra certamente resistenze – inerzia dei processi storici a cui abbiamo accennato – nel partito, nella nomenklatura, nell’apparato.

Intanto oggi, dalla vittoria della guerriglia – primo gennaio 1959, per Cuba è il primo giorno senza Fidel. A Cuba molti lo hanno venerato, e tanti non hanno smesso. Senza però – troppo intelligente Fidel, troppo ironici i cubani – un esasperato e deteriore “culto della personalità”: Cuba è piena di busti di José Martí, nessuno di Fidel. Molti hanno avuto con lui un rapporto di amore-odio. Molti, soprattutto negli ultimi anni, soprattutto fra i più giovani, lo hanno francamente detestato. Ma conoscendo Cuba, la psicologia dei cubani, la relazione che hanno intrattenuto nell’arco di quasi sessant’anni con l’uomo che ha fatto e guidato la Rivoluzione, si può scommettere che per moltissimi, forse per quasi tutti, sarà come avere perso un padre: a volte severo ma anche permissivo, autoritario ma anche generoso, che ha preteso, ha vietato, ma ha anche dato, ha provveduto e ha protetto, e ha affascinato. E questo nel momento in cui con l’elezione alla presidenza degli Stati Uniti di Donald Trump la prospettiva della normalizzazione dei rapporti e dell’eliminazione del bloqueo è a gravissimo rischio, e l’orizzonte per Cuba è di nuovo molto fosco.

E la Storia? La vita del leader cubano ha coperto un arco di tempo così lungo che la sua esperienza rivoluzionaria può già essere guardata dalla prospettiva di quella Storia che Castro, nel ’53, era certo lo avrebbe assolto. Nel ’59 la rivoluzione cubana ha aperto una prospettiva che è stata di potente ispirazione per l’America Latina: e anche l’affermarsi di governi di segno progressista e socialista degli ultimi decenni deve molto all’esempio di Cuba di giustizia sociale e di autonomia dall’agenda di interessi statunitensi; e gli stessi passi indietro che l’America Latina sta vivendo testimoniano di come non fosse del tutto ingiustificata la difesa del socialismo anche al prezzo di limitazioni delle libertà politiche e di espressione.

E se si considerano diritti umani non solo il pluralismo politico e la possibilità di organizzare il dissenso ma anche il diritto all’alimentazione, alla salute, all’istruzione, il bilancio del socialismo cubano è tutt’altro che negativo. Dal ’59 generazioni di bambini cubani sono cresciuti senza conoscere fame, violenza, guerra. Certo non immacolata – ma per responsabilità e fattori che sarebbe superficiale riportare al solo Fidel Castro – la Rivoluzione ha a ben vedere anche risparmiato a Cuba quel destino terribile di dittature fasciste, spietate repressioni, feroci guerre civili a cui quasi nessun paese latinoamericano è sfuggito, e a cui, senza l’iniziativa rivoluzionaria di Castro, era fatale che prima o poi non sfuggisse nemmeno Cuba. La Storia avrà ben altri da condannare.
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novembre 28, 2016

La Monsanto mette il suo zampino di morte anche alle Hawaii.
La Monsanto sta distruggendo un vero e proprio paradiso, rappresentato dall’isola di Molokai, la quinta isola dell’arcipelago della Hawaii in termini di dimensioni. Scarsamente popolata è soprannominata l’isola amichevole, ed è una delle meno sviluppate, ma vanta comunque tra le più alte scogliere al mondo, raggiungendo 1005 metri sopra il livello dell’Oceano Pacifico.

Visto il carattere amichevole dei suoi abitanti, la Monsanto si è voluta approfittare di loro e, come sempre accade in questi casi, promettendo felicità e prosperità ai suoi abitanti, facendo divenire questa isola un laboratorio dove gli abitanti sono trattati come topi da laboratorio, un’isola che, con le sue cascate e le foreste pluviali lussureggianti è da considerarsi una vera e propria perla.
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La Monsanto ha messo in piedi una vera e propria boutique, circondata da recinzioni che non ammettono intrusioni, visto che quasi 2000 ettari di terreno vengono utilizzati per la coltivazione del mais transgenico, sul quale viene spruzzata la tossina Bt, creata per permettere agli agricoltori di lottare contro i parassiti senza utilizzare troppi pesticidi, magari condensando in pochi prodotti l’effetto nocivo desiderato.
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I lavoratori della Monsanto, per fare queste sperimentazioni, hanno a disposizione indumenti protettivi dalla testa ai piedi, con l’ausilio di un respiratore, mentre, gli altri abitanti residenti nelle zone limitrofe, non posseggono queste protezioni, “ciucciandosi” le polveri tossiche. Come sempre la Monsanto si difende asserendo che tutto questo non genera alcun danno a cose o persone, ma allora perchè si bardano di tutto punto?

Gli abitanti dell’isola non sono d’accordo, e hanno un punto totalmente diverso della questione, verificando che è simile a quello delle popolazioni dell’India o dell’Argentina, tanto per fare un esempio, popolazioni che hanno subito a loro volta l’aggressione della Monsanto e del suo glisofato altamente tossico. Non basta l’evidenza dei fatti, visto che il popolo dei Molokai accusa sempre di più malattie come diabete, asma e il cancro… eppure si continua, da parte della Monsanto, a volgere lo sguardo e soprattutto il cuore, da un’altra parte.

Un prodotto a base di glisofato è il ben noto Roundup, contenente anche il polyethoxylated tallowamine, o POEA , il quale produce vari effetti nocivi. I lavoratori agricoli, se si strofinano gli occhi, li avranno gonfi, palpebre comprese, inoltre, con la respirazione, un aumento della frequenza cardiaca e della pressione.
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Altri effetti riscontrati sono: vomito, diarrea, emolisi (distruzione dei globuli rossi), alterazione dello stasto mentale ed edema polmonare. L’ingestione, inoltre, può causare faringite, dolori addominali e al fegato, danni renali, erosioni esofagee e altro ancora. Inoltre, viene influenzato lo sviluppo dei feti, danneggiate le cellule e perturbato il sistema ormonale, visto che il POEA contiene diossina.

I politici si rifiutano di ascoltare, conniventi come sono con le multinazionali come la Monsanto, svendendo la salute dei propri cittadini per un piatto di lenticchie. Questi non sono umani ma alieni, i quali devono modificare l’habitat di questo pianeta per renderlo ospitale alle loro necessità. Sarà fantascienza, ma un virus con la cellula si comporta proprio in questa maniera, e questi personaggi alieni a questa umanità sono un virus che cerca di implementarsi avendo necessità che la vita come la conosciamo venga distrutta.

Cerchiamo di rimanere portatori sani di umanità, queste forze aliene non hanno nulla da insegnarci, e tutto quello che ci vogliono propinare se lo riprendano e vadano a “giocare” da un’altra parte… rimaniamo umani che è meglio.
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