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agosto 11, 2009

La guerra, tra elezioni e buone intenzioni

obama Durante il suo storico di­scorso tenuto all'Univer­sità del Cairo, in Egitto, lo scorso 3 giugno, il presidente degli Stati Uniti, Barack Obama, ha voluto spiegare al mondo mu­sulmano che gli Usa sono, loro malgrado, costretti a continuare la guerra in Afganistan fino a quando nel cosiddetto AfPaknon ci saran­no più «violenti estremisti». «Noi non vogliamo mantenere le nostre truppe in Afganistan - ha detto Obama - noi non vogliamo basi militari permanenti. È dolo­roso per l'America perdere nostri giovani uomini e donne.

È costoso e politicamente difficile continuare questo conflitto. Saremmo ben lie­ti di riportare a casa ogni singolo nostro soldato se fossimo certi che in Afganistan e in Pakistan non ci fossero più violenti estremisti determinati a uccidere quanti più americani possibile. Ma per ora non è così».

Obama ha precisato nel suo di­scorso che «la forza militare da sola non risolverà i problemi in Afganistan e Pakistan», spiegando che gli Stati Uniti hanno stanziato miliardi di dollari «per costruire scuole, ospedali, strade e attivi­tà economiche» in Pakistan e per aiutare l'Afganistan a «sviluppare la sua economia e a fornire quei servizi da cui la popolazione di­pende».


In AfPak la distruzio­ne e le vittime civi­li della "guerra totale"
Al di là delle belle parole, però, afgani e pachistani vivono sulla loro pelle una realtà ben diversa: un'escalation militare senza pre­cedenti che in Pakistan, appaltata all'esercito locale, sta producendo migliaia di morti, milioni di pro­fughi e un forte sentimento anti-americano, e che in Afganistan, con l'arrivo di migliaia di nuovi soldati Usa e con l'intensificazione dei bombardamenti aerei e delle offensive terrestri, produce ogni giorno nuove stragi di innocen­ti e di conseguenza sempre più persone che, per vendetta e per disperazione, sono «determinate a uccidere quanti più americani possibile».


Una strategia di "guerra totale" duramente criticata dallo stesso presidente afgano Hamid Karzai, secondo il quale più guerra por­terà solo più morte e distruzione e quindi maggior sostegno popolare ai taliban, che ormai controllano i tre quarti del paese e circondano Kabul. Un'osservazione banale, che però stenta a far breccia nelle menti degli strateghi della guerra afgana che si celano dietro alle belle parole di Obama: sopra tutti il generale David Petraeus, a capo del CentCom(\\ comando centrale strategico delle forze armate Usa competente per le operazioni in Medio Oriente e Asia centrale e meridionale) e il consigliere pre­sidenziale per la politica estera Zbigniew Brzezinski, uno che di Afganistan, Pakistan e di terroristi islamici se ne intende.

Fu lui, infatti, che in qualità di Con­sigliere per la Sicurezza nazionale del presidente Jimmy Carter ideò \Operazione ciclone con cui la Cia arruolò, armò e addestrò i futuri terroristi islamici, Bin Laden com­preso, per combattere i russi in Af­ganistan. Brzezinski fu anche colui che convinse la Cina a sostenere Poi Pot in funzione antivietnamita.
L'ex presidente scon­fessato dai fatti e dai suoi vecchi alleati.


Negli Stati Uniti, le parole di Hamid Karzai, oltre a essere considerate
inopportune, ormai non godono più di nessuna considerazione: il presidente afgano è infatti caduto in totale disgrazia a Washington a causa della corruzione e dell'in­competenza del suo governo. Al punto che nei mesi scorsi l'ammi­nistrazione Obama ha valutato la possibilità di "scaricare" Karzai e di sostenere un candidato di fidu­cia alternativo alle elezioni presi­denziali del 20 agosto.

Salvo poi rendersi conto che nessun altro candidato ha la possibilità concre­ta di raccogliere più voti di lui, poi­ché la maggioranza dell'elettorato afgano voterà per il candidato più noto. Quindi a Washington han­no deciso di lasciare che Karzai vinca le elezioni presidenziali di agosto, per poi cambiare la forma di governo dal presidenzialismo al premierato, con il passaggio del potere effettivo nelle mani di un Primo ministro: una personali­tà "di alto profilo", un tecnocrate efficiente scelto dall'Occidente. In questo modo, Karzai rimarrebbe a ricoprire una carica puramente rappresentativa.

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Per il delicato incarico circolano già due nomi. Uno è quello, ben noto, di Zalmay Khalilzad, diplomatico di origine afgana ma statunitense di nascita (e di cittadinanza), ex ambasciatore Usa all'Onu, in Iraq e poi in Afganistan. Molto quota­to è anche l'attuale ministro degli Interni, Mohammed Hanif Atmar. Questo quarantenne, pashtun come Karzai (cui assomiglia anche parecchio), negli anni '80 era nelle unità speciali dei servizi segreti co­munisti (Khad) che combattevano contro i mujaheddin. Quando que­sti conquistarono Kabul nel 1992, fuggì in Gran Bretagna dove ha poi conseguito un master in Studi di ripresa post-bellica all'università di York. Tornato in Afganistan nel 2002, è diventato il ministro del governo Karzai più apprezzato in Occidente per la sua efficienza: prima all'Agricoltura, poi all'Istru­zione e dallo scorso ottobre agli Interni. L'ultimo incarico l'ha avuto su pressione di Washington, che lo ha imposto a Karzai allo scopo di combattere la dilagante corru­zione nella polizia.


Tra 44 candidati alla presidenza, pochi pos­sibili pretendenti
Tra i quarantaquattro pretendenti alla presidenza in lizza per il voto del 20 agosto - ex signori della guerra, ex taliban sdoganati, boss del narcotraffico, un paio di don­ne coraggiose e alcuni comunisti redivivi, quasi tutti dei gomnaam, degli sconosciuti, che verranno vo­tati solo dai loro clan -, l'unico con la possibilità di ottenere un buon risultato è l'ex ministro degli Este­ri, Abdullah Abdullah, il candidato sostenuto dal Fronte Nazionale Unito: partito d'opposizione degli ex mujaheddin tagichi e uzbechi dell'Alleanza del Nord, fondato nel 2006 e guidato dall'ex presidente Burhanuddin Rabbani. Oltre a Abdullah Abdullah, ci sono altri candidati degni di nota, anche perché "approvati" dall'ammini­strazione Usa.


Uno è l'ex ministro delle Finanze, Ashraf Ghani, formatosi nelle mi­gliori università statunitensi, alla Banca Mondiale e alle Nazioni Unite, attualmente a capo dell'Isti­tuto per l'efficienza dello stato e precedentemente rettore dell'Uni­versità di Kabul.


Molto consenso riscuote anche l'ex ministro dell'Interno, Ali Ah-mad Jalali, ex ufficiale della resi­stenza antisovietica ed ex ministro dell'Interno di Karzai, insegnante di strategia militare all'Università di Difesa Nazionale del Pentagono, a Washington. Infine, il governato­re della provincia di Nangarhar, Gul Agha Sherzai, ex signore del­la guerra combattente al servizio degli Usa sia contro i sovietici, sia contro i taliban (fu lui a conquistare Kandahar nel 2001 ), oggi accusato di legami con il narcotraffico ma, ciononostante, indicato da Obama come un modello di buon politico afgano.

fonte: PeaceReporter (Enrico Piovesana)


BASE DI BAGRAM: LA GUANTAMANO AFGANA
L'incoerenza tra parole e azioni della nuova amministrazione Usa in materia di «guerra globale al terrorismo» - che Obama ha ribattezzato «operazioni di emergenza oltremare» - emerge anche dalla vicenda Guantanamo-Bagram.


La Casa Bianca non perde occasione per ribadire la sua intenzione di chiudere la prigionedella vergogna sull'isola di Cuba, ma si rifiuta anche solo di parlare della prigione militare Usa di Bagram, in Afganistan, che invece continuerà a funzionare al di fuori di ogni rispetto dei diritti umani. Il documentario Taxi to thè Dark Side, incentrato sulla vicenda di uno dei tanti afgani innocenti torturati a morte dai soldati Usa a Bagram, documenta la storia della prigione dove sono stati inventati i sistemi d'interrogatorio e detenzione successivamente esportati a Guantanamo e Abu Ghraib.

Lo scorso 2Ì maggio, durante una conferenza stampa presidenziale sulla nuova politica Usa nei confronti dei detenuti sospettati di essere terroristi, Obama si è rifiutato di rispondere alla domanda di un giornalista sulla prigione di Bagram. Pochi giorni dopo, il Times di Londra ha pubblicato un editoriale molto critico su Obama: «Quella della prigione Usa di Bagram è una storia palesemente ignorata su cui Obama non vuole che si concentri l'attenzione del mondo.

È Bagram, non Guantanamo, che dovrebbe tormentare le coscienze dell'opinione pubblica mondiale. A Bagram sono detenuti oltre seicento prigionieri, molti da anni, e tutti senza accuse, a tempo indeterminato e in condizioni molto peggiori di quelle di Guantanamo». «La nuova amministrazione non vuole parlare di Bagram perché è un capitolo imbarazzante», ha dichiarato Tma Poster, direttrice dell'associazione legale statunitense International Justice Network. «Obama ha mantenuto la politica Bush che consente al presidente di mantenere in giro per il mondo delle enclave completamente fuorilegge al di fuori del territorio Usa, ma preferisce far credere all'opinione pubblica che il problema è stato risolto con le dichiarazioni sulla chiusura di Guantanamo».

L'ITALIA IN GUERRA CONTRO L'ARTICOLO 11
In Afganistan l'Italia è in guerra, con buona pace dell'articolo 77 della nostra Costituzione.


L'esitazione e l'imbarazzo del governo Prodi, che lasciava combattere solo le nostre forze speciali rifiutandosi di ammetterlo, sono stati sostituiti dall'interventismo e dall'orgoglio militare del governo Berlusconi, che ha inviato al fronte i para della Folgore autorizzandoli al combattimento e rendendo pubbliche le notizie dei loro attacchi e perfino - novità assoluta - delle perdite infìitte al nemico.


La "prima volta " è stata lo scorso 29 maggio, quando il comando italiano di Herat ha dato la notizia di una violenta battaglia a Baia
Murghab (provincia di Badghis) nel corso della quale i paracadutisti del reggimento Nembo, reagendo a un'imboscata, hanno bombardato con l'artiglieria le postazioni taliban, uccidendo «25 insorti», precisando poi che gli avamposti nemici sono stati "neutralizzati" anche con mortai da 120 millimetri e con l'intervento degli elicotteri da attacco Mangusta.
«I nostri ragazzi hanno risposto con qualità e professionalità, ricorrendo anche all'uso dei mortai», ha orgogliosamente commentato il ministro della Difesa, Ignazio La Russa. Un altro tabù è stato infranto pochi giorni dopo, il 3 giugno, quando i comandi italiani hanno dato notizia, per la prima volta, di un'operazione condotta delle forze speciali della Task Porce 45: quattro capi taliban fatti prigionieri nella provincia di Farah dagli incursori del reggimento Col Moschin.

Le azioni militari dei corpi d'elite italiani in Afganistan, attivi sin dal 2006, erano sempre state coperte dal massimo riserbo. Il segnale più significativo del nuovo corso interventista dell'Italia sul fronte afgano è giunto lo scorso 4 giugno, quando, anche qui per la prima volta, la Difesa ha annunciato che le truppe italiane - fino ad allora ufficialmente impegnate solo in azioni "difensive", cioè in reazione ad attacchi - stavano partecipando da giorni a un 'operazione "pianificata " nell'area di Baia Murghab, nel corso della quale «sono state individuate ed eliminate diverse postazioni di insoni grazie all'intervento congiunto e perfettamente coordinato dei mortai dell'esercito afgano con gli elicotteri italiani Mangusta».


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