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maggio 20, 2011

La battosta di Milano per La Russa è simile alla trappola di El Alamein: una sconfitta storica.

Il grande stratega tedesco vinceva sempre, ma poi fu attratto nella trappola di El Alamein e subì una sconfitta storica. Così il ministro della Difesa spiega la batosta di Milano. Insomma, nel Pdl proprio ottimisti non sono

Un tiro al bersaglio. Sarà questione da psicanalisi, ma è l'immagine che resta disegnata su un foglietto alla fine del primo drammatico vertice del Pdl dopo la batosta delle amministrative milanesi.

L'autore è il ministro Ignazio La Russa, uno che i poligoni di tiro li conosce bene per ragioni di ufficio, si distrae mentre accanto a lui Denis Verdini elenca il bollettino di vincitori e vinti. Un bel tabellone, mancano solo le freccette. "Sono io il bersaglio...", mormora il ministro.

Ma si sbaglia: questa volta il bersaglio è più grosso. L'obiettivo di tutti gli attacchi è il leader indiscusso, il Fondatore, il Silvio della canzone, meno male che c'è. E invece era meglio che non ci fosse stato. A Umberto Bossi è stato attribuito un ultimatum esplicito: se non si vince, il governo va a casa. Dopo ore di silenzio, i suoi colonnelli hanno smentito quella frase, ma le tensioni restano.

Impensabile fino a sette giorni fa. Berlusconi, l'ex re taumaturgo che trasformava in vittoria quello che toccava, tutta colpa sua. Letizia Moratti ne è sicura. E lo fanno capire, a mezza bocca, i gregari del Pdl. Un errore candidarsi in prima persona a Milano. "Anche Rommel si fece attirare in battaglia", lo giustifica La Russa, e si sa com'è finita. Uno sbaglio scatenare Daniela Santanchè in tv, il "Giornale" che invitava a votare per Roberto Lassini, il candidato che con i suoi manifesti aveva equiparato le toghe alle Brigate rosse. E il rosario del Cavaliere contro i pm, aver trasformato il voto per Moratti in un referendum su di sé? Un folle autogol politico.


I capi del Pdl in pubblico parlano genericamente di svarioni compiuti da molti, si rinfacciano ripicche e sospetti, ma in realtà pensano a uno solo. "Ma davvero credete che la Santanchè abbia potuto usare quei toni in autonomia, senza essere spinta da qualcuno? La conosco bene, non fa un passo senza autorizzazione", maligna La Russa, amico della pasionaria azzurra. Il mandante va cercato più in alto. "Rispetto al 2006 sono andati a votare 35 mila elettori in più, solo 5 mila di questi hanno scelto la Moratti. Segno che la sinistra è stata più brava di noi a far ritornare gli astenuti alle urne, hanno approfittato del clima di radicalizzazione", riassume il ministro della Difesa.

Già: ma venivano dal Pdl il muro contro muro, i toni sguaiati, lo "stronzo" di Umberto Bossi contro Fini, il candidato del Pd a Bologna accusato di essere di origini napoletane dal ministro Giulio Tremonti, "apripista di Alì Babà", e naturalmente i magistrati "eversori, patologia, cancro da estirpare", ripetuto ogni giorno dal capo del governo. E dunque l'autocritica tardiva dei vertici del Pdl riguarda un modo di concepire e di comunicare la battaglia politica. Quello che per 17 anni Berlusconi ha utilizzato - quasi sempre con successo - contro gli avversari politici, tutti in blocco comunisti ed estremisti.

Un sacrilegio mettere in discussione Silvio e il suo modo di fare, prima di quella domenica-maledetta-domenica che ha segnato il crollo del sindaco Moratti a Milano, precipitata al 41,6 per cento, a sette punti dal candidato del centrosinistra Giuliano Pisapia, e uno sberleffo personale per il premier, votato da 27 mila elettori, la metà delle 53 mila preferenze conquistate nel 2006. Una vittoria della Moratti al primo turno avrebbe spalancato al Cavaliere le porte di una splendida estate: sarebbe suonata come la liquidazione del Terzo polo di Pier Ferdinando Casini e dell'odiato Gianfranco Fini, un ceffone per i tribunali che si permettono di giudicarlo, il via libera per le prossime leggi sulla giustizia e le nuove nomine di governo e di sottogoverno.

E invece ora quel "dopo", il dopo-B. sempre esorcizzato, sembra aprirsi davvero. Il ballottaggio del 29 maggio a Milano diventa una questione di vita o di morte. "Ma io margini di rivincita ne vedo pochi", sospira il ministro Gianfranco Rotondi: "Ed è stato suicida far partire in anticipo una gara per la successione, far capire che la leadership del centrodestra era a disposizione. L'idea di preparare un percorso che avrebbe portato all'investitura del delfino Angelino Alfano era lineare, ma la Lega si è messa di mezzo, forse pensavano a Roberto Maroni. Ora gli spazi di manovra sono ridotti. E le elezioni l'anno prossimo diventano più probabili".


fonte: L'Espresso

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