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dicembre 12, 2023

Razzismo economico, il ruolo occidentale nei disastri ecologici mal gestiti in Africa.

Diverse aziende petrolifere europee hanno sfruttato il continente africano senza farsi troppi scrupoli sull’inquinamento, ad esempio esportando la cosiddetta “benzina sporca”. Oltre a questo, vi sono le gravi condizioni dei fiumi del Lesotho, della Tanzania e dell’Uganda, causate specialmente dai brand della moda e dalle grandi multinazionali

Incompetenza, perdite di tempo, mancanza di trasparenza e di pianificazione stanno caratterizzando le opere di bonifica nella regione nigeriana di Ogoniland, situata nei pressi del Delta del fiume Niger. Qui, per decenni, le compagnie petrolifere occidentali hanno svolto attività estrattive petrolifere compromettendo fauna e flora circostanti.


Il petrolio continua a fuoriuscire dai pozzi.

Ancora oggi, venticinque anni dopo che la britannica Shell ha chiuso gli impianti, il petrolio continua a fuoriuscire dai pozzi e dalle condutture inquinando le foreste, le acque dove i pescatori locali cercano di sopravvivere e diffondendo un persistente odore di benzene, dalle conseguenze nefaste, nell’aria. L’Ogoniland è diventata una delle regioni più inquinate della Terra e sembra che l’imponente piano di bonifica da 1 miliardo di dollari, finanziato dalla Shell è voluto dalle Nazioni Unite, non sia risolutivo.

Tra il 1976 ed il 1991 l’equivalente di oltre due milioni di barili di petrolio ha inquinato l’Ogoniland durante 2976 perdite. Si tratta di un doloroso esempio di impunità aziendale scontratasi con gli sforzi incessanti di individui ed attivisti che vogliono ottenere giustizia. Michael Karipko, membro di Environmental Rights Action, ha spiegato al portale Friends of the Earthquakes International che «il prezzo per la docilità mostrata dalle nostre comunità e dal Paese è stata la perdita di sovranità e indipendenza a vantaggio di multinazionali predatrici» e che «le nostre comunità non devono perdere l’abitudine di farsi sentire».

L’orrore di un paesaggio nero e senza vita.

L’orrore provocato dalla vista di un paesaggio nero e senza vita è un qualcosa che deve essere provato per essere compreso e non può essere descritto a parole. Il petrolio grezzo è una sostanza altamente infiammabile e ha effetti irritanti per gli occhi. In caso di esposizione prolungata ci possono essere danni agli organi, mentre l’esposizione ripetuta può provocare secchezza della pelle oppure effetti neoplastici. La sostanza ha effetti tossici per gli organismi acquatici con effetti a lungo termine per l’ambiente.

Il razzismo di natura economica, come ricordato in un editoriale del Guardian, ha spinto diverse aziende petrolifere europee, nel corso degli anni, a sfruttare l’Africa dal punto di vista economico senza farsi troppi scrupoli per quanto riguarda l’inquinamento. Un esempio è l’esportazione verso l’Africa della cosiddetta “benzina sporca”, contente concentrazioni di solfuro diverse migliaia di volte superiori rispetto ai limiti minimi accettati in Europa. In alcuni casi le aziende coinvolte si sono difese affermando che la pratica non è illegale, ma ci sono alcune evidenze che parlano chiaro. L’aria delle città africane è spesso molto inquinata, poco salutare e irrespirabile è tutto ciò provoca perdite di vite umane. Nel 2013, ad esempio, 20mila persone sono morte in Ghana a causa dell’inquinamento dell’aria e questo dato è riscontrabile anche in altre nazioni africane.

Il report della Water Witness International.

Un report della Water Witness International, organizzazione no profit operante ad Edimburgo citata da GreenMe, ha evidenziato le gravi condizioni in cui versano i fiumi del Lesotho e della Tanzania a causa dell’inquinamento provocato da alcuni noti brand della moda low cost. Le grandi marche sfruttano le regioni più povere del mondo, situate in Africa ed in Asia, per produrre capi di abbigliamento di qualità non eccelsa grazie alla manodopera a bassissimo costo e da rivendere poi in Occidente.

L’assenza di controlli ambientali ha fatto sì che i colori artificiali utilizzati per tingere i tessuti dei jeans inquinassero i corsi d’acqua. Nei pressi di un’industria tessile situata presso il fiume Msimbazi, che scorre nei pressi di Dar es Salaam in Tanzania, è stato riscontrato un valore di Ph pari a 12, equivalente a quello della candeggina, mentre un fiume in Lesotho ha assunto il colore del tessuto dei jeans.

In Uganda sta morendo il fiume Rwizi, la cui portata si è ridotta del 60 per cento, come ricordato dal National Environment Management Authority (Nema) all’agenzia Anadolou, a causa «delle strutture costruite lungo le rive e delle pratiche agricole, portate avanti nelle colline, che hanno dato luogo a frane». Sono stati riscontrati problemi di inquinamento lungo il corso del fiume, che hanno provocato ostruzioni. Tra i responsabili ci sono grandi industrie, importanti catene alberghiere ma anche la Coca Cola e i Birrifici Nile, parte di una società leader mondiale della birra quotata in borsa e con sede a Leuven, in Belgio. Le parti interessate hanno attuato interventi per ripristinare il bacino idrografico del fiume e i Birrifici Nile hanno eretto muri di gabbioni nel proprio stabilimento per stabilizzare le sponde del fiume ed impedire che i terreni sciolti vi collassino.

Fonte.

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