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luglio 24, 2009

Iraq: il caos sul cammino verso il dopoguerra

iraq Dopo sei anni di guerra, migliaia di morti e milioni di sfollati, la violenza sembra essere diminuita, ma la pacificazione è ancora lontana.


Secondo un rapporto del Pen­tagono stilato all'inizio di ottobre 2008 e confermato dall'attuale governo di Bagdad e da fonti indipendenti, nell'ultimo anno e mezzo il numero dei morti per cause violente è calato del 70 per cento ri­spetto al passato.

Sono inoltre diminu­iti anche i rapimenti e gli attentati. Il merito di questi risultati, al contra­rio di quanto sostengono molti media internazionali, non è del generale statunitense David Petraeus e della sua strategia della surge - la grande ondata -, con 30 mila soldati a garan­tire un maggior controllo del territorio iracheno.






Secondo la maggior parte degli analisti militari, la vera svolta è rappresentata dal coinvolgimento dei sunniti nella gestione della sicurezza locale.

A questo scopo, i movimenti al-shawa, o Consigli del risveglio, si sono rivelati determinanti. Si tratta di milizie sunni-te di autodifesa, espressione diretta dei clan locali, che hanno messo sotto controllo le rispettive zone di influenza in cambio del ritiro delle truppe statu­nitensi dalle strade delle loro cittadine. Forse se i sunniti fossero stati coinvolti nella gestione del paese sin dall'inizio del conflitto, nel 2003, si sarebbero po­tute risparmiare delle vite umane. Il generale miglioramento delle con­dizioni di sicurezza sta permettendo il lento, progressivo ritorno a casa di tante famiglie che avevano abbando­nato le città in fuga dalla violenza. Un altro elemento positivo è il progressivo declino della violenza tra confessioni diverse: la convivenza tra sunniti e sci­iti, che ha sempre caratterizzato l'Iraq, riprende a esistere nella quotidianità dopo anni di violenti scontri religiosi. Grazie a questa "distensione", il 31 gennaio scorso si è votato in 14 delle 18 province dell'Iraq, escluse le zone curde e le zone contese tra curdi e sunniti.


Il premier Nuri al-Maliki ha vinto, ma non ha stravinto. La sua formazione è arrivata prima in nove province -Bagdad e tutte le province del sud a maggioranza sciita tranne una: un buon risultato, ma non determinante. Sicuramente hanno perso le formazio­ni più marcatamente confessionali, ma a favore di formazioni nazionaliste e strettamente legate all'appartenenza etnico-religiosa.


Rispetto al passato, il voto si è svolto ! in un clima sereno. Ma gli aspetti positivi terminano qui.


Kirkuk, la ricchissi­ma città petrolifera con­tesa da curdi e sunniti
I Tra i tanti nodi problematici che resta­no da affrontare, c'è lo status futuro della città di Kirkuk. L'articolo 140 della Costituzione ira­chena, entrata in vigore dopo la cadu­ta del regime di Saddam, prevede tre passaggi per decidere a quale parte del paese debba appartenere la città i che sorge su quello che è ritenuto uno dei più grandi giacimenti di petrolio del mondo.


Si prevedono prima la stabilizzazione delle condizioni di sicurezza, poi un censimento della popolazione e infine un referendum che lasci alla popola­zione la libertà di decidere se diven­tare parte della regione autonoma del Kurdistan o della comunità sunnita del paese che, con quella sciita, comple­terà il quadro federale dell'Iraq del futuro.


Questa soluzione soddisfa solo i curdi, scontentando i sunniti e le altre mino­ranze del la città.


Ai tempi di Saddam, infatti, tanti curdi vennero scacciati dalla città petrolifera e sostituiti da sunniti. Alla caduta del regime, i curdi hanno imposto la stessa sorte ai sunniti, scacciandoli dalla città e incentivando il ritorno dei curdi. Questa movimentazione forzata della popolazione renderebbe poco attendi­bile il risultato dell'eventuale referen­dum, che non a caso è continuamente rimandato.


Non è Kirkuk l'unico problema del Kurdistan iracheno. A nord restano attivi i gruppi guerriglieri del «Pkk» (il Partito dei lavoratori del Kurdistan) e del «Pjak» (Partito della libertà del Kur­distan), rispettivamente curdi turchi e curdi iraniani. Contro di loro, Ankara e Teheran hanno dato vita a una colla­borazione militare con bombardamenti quotidiani dei villaggi curdi iracheni di frontiera che offrirebbero collabora­zione ai miliziani. Il governo regionale curdo è in difficoltà perché da un lato subisce le minacce turche e iraniane di un'escalation militare, dall'altro risen­te della pressione popolare che solida­rizza con i guerriglieri.


La presenza delle basi americane e la divisio­ne dei proventi del petrolio
A livello centrale, il governo di Bagdad è chiamato a prendere due decisioni chiave.


Gli Stati Uniti chiedono al governo un accordo decennale per mantenere le basi militari in questa zona strategica del mondo. La decisione in merito è complicata da un'ulteriore richiesta: la totale impunità dei cittadini statu­nitensi per crimini commessi in Iraq. Un'impunità che, come è comprensi­bile, spinge alla protesta larga parte della società irachena. Rispetto alla seconda questione - la divisione dei proventi del petrolio -non si è ancora stabilito come evitare che curdi e sciiti, che vivono nelle zone più ricche del combustibile, escludano i sunniti dalla ripartizione della ricchez­za generata dalla sua vendita. Come si è visto in passato, trascurare i sunniti è una pessima idea. In questo senso, il governo dovrà anche dare una risposta ai miliziani dei «Consigli del risveglio» che, dopo aver ristabilito l'ordine in tante zone dell'Iraq e aver scaccia­to i fondamentalisti che arrivavano dall'estero, chiedono ora di essere assunti dallo stato.


La fine della guerra in Iraq, nonostante le migliorate condizioni di sicurezza, non è ancora vicina. Mentre si discute del futuro, festa da affrontare la ricostruzione di un paese distrutto, dove la classe dirigente è fuggita all'estero o ha perso la vita. Un paese nel quale dilaga la corruzione, come denuncia Transparency Interna­tional, un'organizzazione non governa­tiva che indaga appunto sul livello di corruzione degli stati. Un paese dove mancano ancora elettricità e acqua po­tabile per tutti e dove il sistema sani­tario nazionale, un tempo modello per l'intero Medio Oriente, è allo sfascio per la mancanza di risorse, attrezzatu­re e personale qualificato.

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