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luglio 23, 2009

La resistenza si fa sul web

resistenza_sul_web Programmi per criptare i messaggi. Software che garantiscono l'anonimato. Nati per usi militari, ora servono ai dissidenti per raccontare le rivolte. Come accade a Teheran

L'Iran di questi giorni è l'esempio più eclatante della crociata che i regimi lanciano contro la Rete per oscurarla e per impedire la circolazione delle notizie che possono loro nuocere. Ma la Rete ha gli anticorpi necessari per non farsi imbavagliare e svolgere la sua funzione di territorio libero, transnazionale, anche anarchico se si vuole. Programmi che garantiscono l'anonimato ai navigatori in modo da non essere intercettati dai custodi della censura, servizi e-mail che permettono di crittografare i messaggi, software per proteggere i propri dati sensibili. E così le verità scomode passano il confine nazionale, entrano nel ciberspazio a uso e consumo della platea mondiale. Come succede con Teheran.

Il regime degli ayatollah aveva addirittura minacciato una censura preventiva, ad esempio a Facebook, in previsione delle cruciali elezioni presidenziali del 12 giugno scorso. Non ce l'ha fatta. Dopo quella data, e in seguito alla denuncia dei brogli ai danni del candidato dell'opposizione Mir Hossein Moussavi, per il governo è stato relativamente semplice imbavagliare i media tradizionali con l'allontanamento dal Paese di corrispondenti di giornali e tv. Ma gli è stato impossibile azzerare il flusso di informazioni dei principali siti sociali dove fioriscono quotidianamente i racconti dei dissidenti. Anche le immagini, come quella che è diventata il simbolo della rivolta, l'uccisione di Neda Agha Soltan, la ventenne ammazzata da una pallottola della polizia antisommossa.

Twitter, YouTube, Facebook sono diventati i canali attraverso i quali, in assenza di voci esterne e indipendenti, i rivoltosi stanno parlando al mondo. E ben presto per i navigatori sono diventati familiari i nomi di alcuni utenti di Twitter che sfidano la censura: Moussavi1388, Persiankiwi e StopAhmadi
. Così come in migliaia da ogni parte del globo hanno chiesto 'amicizia' a Moussavi sulla sua pagina Facebook, in segno di solidarietà ma anche per leggere ogni giorno le sue considerazioni. Sullo stesso social network sono comparsi personaggi anti-Moussavi allo scopo di denigrarlo.

Il regime, a sua volta, si serve di filtri e software per bloccare le proteste on line e andare a caccia dei rivoltosi nella perenne battaglia, combattuta a colpi di tecnologia, tra chi vuole informare e chi lo vuole impedire. Colta di sorpresa, la polizia degli ayatollah con l'andare dei giorni ha però raffinato le sue tecniche, usando anche tecnologia comprata in Occidente (Europa, soprattutto).

Ed è riuscita a rallentare il flusso di informazioni colpendo, in particolare, chi non si è cautelato con programmi che permettono l'anonimato. 'Persinakiwi' ha cominciato a tacere dopo un allarmante messaggio: "Devo scappare, hanno trovato uno dei miei". Quasi azzerati i filmati su YouTube. Rallentato su Twitter il canale 'NedaNet' dal nome della ragazza uccisa in piazza. Altri resistono e non sono stati individuati.

Se l'Iran è cronaca fresca, non è naturalmente il solo Paese dove è stata dichiarata guerra alla Rete e alle notizie. Secondo uno studio di OpenNet (progetto di ricerca a cui collaborano diverse università, da Harvard a Toronto, da Oxford a Cambridge) sono 36 gli Stati che filtrano sul Web discussioni di natura politica e religiosa. Ma anche pornografia e gioco d'azzardo. Tanto da far dire a Ronald Deibert, cofondatore di OpenNet e docente di scienze politiche a Toronto: "C'è un aumento delle norme sul filtraggio dei contenuti in Internet. È una pratica che cresce in portata, scala e sofisticazione in tutto il mondo".

In Birmania, Siria e Zimbabwe, anche se non si spara nelle strade, l'occhio del regime è vigile come in Iran: molti siti sono bloccati ed esprimersi liberamente non è permesso. Emblematico il caso di Tariq Biasi, un blogger siriano recentemente condannato a tre anni di carcere per "diminuzione dello spirito di patria". La sua colpa? Aver pubblicato un post in cui criticava i servizi di sicurezza del Paese, che nel corso degli ultimi anni hanno bloccato (definitivamente o a intermittenza) diversi 'pezzi' della Rete fra cui Skype, YouTube o Facebook. In Cina il governo è uno dei più sofisticati censori di Internet. Usa una varietà di tecniche, compreso il blocco degli indirizzi, dei nomi dei domini, e anche delle pagine Web contenenti parole ritenute "pericolose". Una di queste è 'Piazza Tiananmen' (è appena trascorso il ventennale di quel massacro): gli archivi on line di grandi giornali come il 'Financial Times' o di emittenti come la Bbc vengono oscurati quando si cercano notizie che riguardano la famosa protesta degli studenti. Non solo, a essere bloccati sono anche spazi come Twitter, Hotmail, Windows Live, Flickr, YouTube.

L’Espresso, 23/07/2009

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