La carenza di cure nelle popolazioni più povere e il loro abuso in quelle più ricche sono due facce della stessa medaglia: se chi gode di migliore salute ha anche maggiori risorse, curare i sani è assai più conveniente.
E' in arrivo una catastrofe sanitaria? Un gruppo di ricercatori, medici e intellettuali riunitisi a Londra un paio d'anni fa ha creato il neologismo Pharmageddon (sulla falsariga di Armageddon, che significa Apocalisse) per mettere in allarme l'opinione pubblica mondiale sulla «prospettiva di un mondo in cui i farmaci, tutti gli interventi della medicina e la ricerca medica producono più danni che benefici».
La medicalizzazione della società sta ricevendo una spinta dalla trasformazione industriale del settore sanitario, dal crescente finanziamento della ricerca a scopo di profitto e dall'adozione di strategie di mercato centrate sulla promozione di singole malattie.
L'espansione del fatturato che ne consegue fa lievitare i costi dei sistemi sanitari, i quali possono opporre solo una debole resistenza alla crescita di un settore trainante per l'economia occidentale, mentre i paesi meno sviluppati non hanno neppure i mezzi per garantire i servizi essenziali per la salute. In mancanza di cambiamenti rilevanti, si può prevedere per il prossimo futuro un incremento dei danni provocati dalla medicina, a fronte di benefici sempre minori, e un allargamento del divario già esistente tra poveri e ricchi nel riconoscimento del diritto alla salute, oltre a un aggravarsi della crisi di fiducia nei confronti della scienza e della pratica medica.
Far credere ai sani d'essere malati per far fiorire l'industria della salute
«Si possono fare molti soldi dicendo alle persone sane che sono malate». Con questa frase si apriva qualche anno fa un articolo pubblicato sulla rivista British Medicai Journal, riguardo l'attività di disease monge-ring (mercato di malattie), la forma più spinta e sottile di medicalizzazio-ne oggi in atto.
Questa dinamica, già individuata oltre vent'anni or sono dal filosofo austriaco Ivan Illich nel suo libro Nenesi medica, era stata profeticamente annunciata ail'iniz'o degli anni venti dal pensatore e com-mediogra'c francese Jules Poma;ns. laddove fa ^ re a suo dottor Knock «Un sano è un malato che non sa di esserlo».
La novità oggi consiste nella capillarità e sistematicità con cui questa prospettiva viene perseguita su scala industriale, con una varietà di strumenti e strategie, spesso tra loro intrecciati.
Infatti la salute, oltre a possedere un intrinseco valore individuale e collettivo, rappresenta ormai la ragione d'essere per uno dei più floridi e proficui settori economici nei paesi sviluppati: le sue dimensioni rappresentano circa il 10% dei consumi in Europa, e raggiungono il 15% negli Stati Uniti.
Un'attività articolata di queste dimensioni ha la necessità di reclutare sempre più clienti e di far loro consumare sempre più prodotti. Ciò sembra inevitabile dal momento che la condizione irrinunciabile per qualsiasi sistema industraìe è l'espansione continua del proprio mercato: se non si cresce si muore. Per allargare l'universo dei potenziali clienti, anche nel settore della salute hanno ben presto trovato applicazione le più avanzate strategie di marketing, in diverse forme specifiche.
Una definizione di «patologia» sempre più ampia e onnicomprensiva
Per ogni condizione medica vi è una tendeza generale ad allargare l'ambito di ciò che viene considerato patologico, a svantaggio della normalità.
Si possono fare diversi esempi di questa tendenza, nei campi più disparati (dall'osteoporosi alla bronchite cronica, dall'asma al glaucoma), ma i più evidenti riguardano i livelli di pressione arteriosa, di cole-sterolo e di glicemia. In tutti e tre i casi il ragionamento è analogo: poiché il rischio che la pressione, il colesterolo o il glucosio producano guasti agli organi comincia a crescere già a livelli più bassi, conviene ridurre la soglia oltre la quale si fa la diagnosi o si interviene. E periodicamente questo abbassamento si ripete.
Eppure gli esperti sanno bene che per quasi tutte le condizioni che mettono in pericolo la salute qualsiasi soglia è arbitraria, perché non esiste alcun gradino al di sotto della quale il rischio si annulla. Ma dovrebbero'o anche ricordare che intervenire su condizionii di rischio molto basso comporta la responsabiiità di mettere in conto possìbili danni alla salute a fronte di benefici minimi e incerti.
Occorre anche tenere presente che, come nota il filosofo bioetico americano Hugo Tristram Engelhardt, quando un medico dice a qualcuno «lei è malato» o «lei ha bisogno di cure», cambia la realtà sociale attorno a lui, come accade quando un poliziotto dice «lei è in arresto». Non è solo una questione di costì sanitari o di maggiori difficoltà nel trovare o mantenere il lavoro o una copertura assicurativa.
L'etichetta di una malattia che dura per tutta la vita cambia in maniera irreversibile ogni rapporto, anche i più intimi: con i figli, con il coniuge e persìno con se stessi. E nella maggior parte dei casi questo marchio è superfluo. A un soggetto con una glicemia o una pressione lievemente alterata, senza disturbi né segni, non c'è bisogno di dire «lei è diabetico» o «lei è iperteso» per suggerire gli unici provvedimenti utili: fare attività fisica, controllare il peso, non fumare e non eccedere con l'alcol. Sono consigli utili per chiunque, che il medico potrebbe formulare in ogni caso.
L'utilità delle attività di prevenzione ancora tutta da testare
Oltre all'abbassamento della soglia, c'è una corsa ad anticipare nel tempo il momento del riconoscimento di una condizione medica, e di conseguenza dell'intervento. Il modello più noto è quello dello screening. Esso si fonda sull'assunzione che riconoscere una malattia in fase precoce sia sempre un bene, in quanto consentirebbe maggiori possibilità di cura. Si può osservare come il prefisso pre- (che compone parole come precoce, predittivo, preclinico eccetera) sia spesso ingannevole in questo contesto. Esso lascia infatti intendere, al pubblico come a molti professionisti, che un evento ne preceda un altro: la suscettibilità e la diagnosi anticipano la malattia, la lesione anticipa i disturbi e così via. In realtà il rapporto tra ciò che precede e ciò che segue non è di uno a uno, ma di molti a uno. Per ogni tante predizioni, una sola si avvererà, mentre tutte le altre resteranno senza conseguenze. Salvo, purtroppo, gli effetti negativi indotti dalla predizione stessa.
La medicina contemporanea propone una massa crescente di esami diagnostici e di controlli periodici su persone sane (che non richiedono di propria iniziativa l'intervento medico), per lo più al di fuori di qualsiasi dimostrazione di benefici superiori agli inconvenienti. In realtà, sulla base delle conoscenze disponibili, nella gran mole degli interventi di screening (o di controlli periodici) che vengono da varie fonti proposti, è possibile distinguere pochi interventi di provata efficacia, almeno in termini di riduzione della mortalità specifica per la malattia in questione: sono tali solo gli screening per il cancro al seno, per il cancro all'utero e per il cancro all'intestino.
Tutto il resto è costituito da interventi "preventivi" di efficacia e sicurezza per lo meno dubbie, quando addirittura non vi siano fondate ragioni di temere che i danni sopravanzino i presunti vantaggi. La disponibilità a «cercare cattive notizie sperando di non trovarle» è sostenuta da un'illusione che si autoalimenta, trovando solo conferme nell'esperienza individuale. Quando un test indica la presenza di una malattia e conduce a un intervento, si interpreta questo fatto come prova della sua utilità; quando invece il test non viene eseguito, ma in seguito emerge una malattia, si ritiene dimostrato l'errore di omissione. Non si danno eventi negativi che mettano in cattiva luce i test in quanto tali, come invece avviene per i trattamenti.
Disease mongering: campagne di consapevolezza o di promozione delle malattie?
I protagonisti delle campagne di sensibilizzazione sono in genere medici, per lo più gli specialisti della malattia di cui si vuole promuovere la consapevolezza, organizzati nelle loro associazioni scientifiche. Accanto ai camici bianchi, si trovano spesso schierati vari gruppi di pressione, in particolare le associazioni di malati e dei loro familiari, che si propongono di richiamare maggiore attenzione su una specifica patologia. In questo contesto, personaggi dello spettacolo, dei media e celebrità di vario genere possono svolgere il ruolo di testimoni sul vissuto d'infermità. A entrambe le categorie di protagonisti, però, sembra mancare la consapevolezza di quanto sia delicato condurre interventi (anche solo di informazione) rivolti a persone sane.
Tanto più che a monte ci sono spesso uno o più sponsor industriali, pronti a finanziare una attività articolata di marketing che, partendo da lontano, si propone in generale di amplificare l'importanza (per diffusione, gravita, implicazioni economiche e sociali eccetera) di una malattia allo scopo di reclutare pazienti e moltiplicare le prestazioni e i consumi. Poiché le campagne di sensibilizzazione sulle malattie divengono sempre più numerose e frequenti, gli organizzatori sono costretti, per così dire, ad alzare la voce, come chi deve farsi sentire in un gran frastuono. Il messaggio fondamentale viene trasmesso attraverso una pluralità di mezzi e occasioni, che tendono a coprire spesso tutta la gamma multimediale degli strumenti di comunicazione e tutte le tipologie di eventi.
In particolare si moltipllcano, fino a sovrapporsi nell'arco dell'anno, le giornate o le settimane nazionali o internazionali dedicate a questa o quella condizione di cui si vuole promuovere la consapevolezza. In effetti dal punto di vista degli sponsor la riconduzione a una data precisa di un problema di salute (in genere cronico e costante nel tempo) sfrutta la maggiore facilità con cui vengono riportati dai media gli eventi puntuali rispetto alla tendenze di lungo periodo.
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