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settembre 16, 2010

Ecco un oro che non luccica; l'impatto della World Wide Web.

Perché la rete e la produzione di software non sono mai stati quel regno della libertà che i guru della net-economy avevano annunciato. Tra nuove relazioni e veri cambiamenti.

Netslaves, schiavi della rete. L’espressione, nata in una delle tante mailing list fiorite alla metà degli anni Novanta del secolo scorso, indica ciò che molti sviluppatori di software e web-designer hanno imparato nel loro lavoro.

A leggere i loro racconti, raccolti poi in un libro che ha avuto molte ristampe e aggiornamenti (Netslaves, Fazi editore), ci si imbatte in orari di lavoro senza fine; in salari che superano la soglia di povertà per una manciata di dollari, in una precarietà nel rapporto di lavoro che negli Stati Uniti significa nessun accesso alle stock options e nessuna assistenza sanitaria.

Storie di vita scritte nel momento in cui la net-economy sembrava un eden dove la forza-lavoro era al riparo da gerarchie e sfruttamento.

Che la rete non fosse il paradiso, lo aveva già segnalato la causa avviata sempre agli inizi dell’era della new economy, da parte di alcuni «consulenti» di Microsoft. Questi si erano rivolti a un giudice perché loro, i cosiddetti temps, cioè i lavoratori a tempo determinato, svolgevano le stesse mansioni dei loro «colleghi» perms, ma erano esclusi dai benefits previsti dall’impresa di Bill Gates e Steve Ballmer per i propri dipendenti a tempo indeterminato. Il verdetto del giudice fu salomonico: quei lavoratori avevano ragione, ma la Microsoft aveva tutto il diritto a differenziare il rapporto di lavoro.

Sono solo due esempi che evidenziano come il World Wide Web e la produzione di software non siano mai stati quel regno della libertà che le teste d’uovo della net-economy avevano annunciato.

La rete era sì un luogo dove la crisi della grande impresa e dell’organizzazione tayloristica del lavoro aveva dato vita a nuovi rapporti di lavoro con caratteristiche certo differenti, ma non era sempre sinonimo di maggiore libertà. Questo non significa che non ci fosse stato un cambiamento, ma che tutto quel che luccicava non era oro.

L’assenza di gerarchie e la maggiore autonomia decisionale dei singoli dovevano vedersela con quel lavoro in team dove il controllo della produttività era delegata a quelle relazioni vis-à-vis che si sviluppano all’interno di un ristretto gruppo di persone. I coordinatori dei vati team fissano gli obiettivi e i tempi del progetto o alle parti del progetto che il gruppo deve sviluppare. Tempi, qualità e esecuzione del lavoro era delegato al team, all’interno del quale ognuno doveva controllare gli altri.

C’era dunque differenza tra la vecchia organizzazione piramidale dell’impresa e un processo produttivo scandito dal lavoro in team, ma questo non significa certo la dimensione coercitiva del lavoro. E poi c’era sempre l’eterno problema del salario. In una realtà, ad esempio statunitense, questo significava che in passato il movimento operaio aveva legato il salario alla produttività, mentre l’assicurazione sanitaria e la pensione facevano parte di quel welfare capitalism che tanto
ruolo aveva avuto negli Usa prima e durante i gloriosi trent’anni di sviluppo economico.

Per quanto riguarda la produttività mancavano e mancano parametri «oggettivi» per misurarla.

Non potevano essere, nel caso del software, le linee di programma codificate, perché quelle linee dovevano funzionare: una volte «scritte », andavano cioè verificate; e la verifica, le correzioni e la nuova verifica dilatavano sempre i tempi di realizzazione.

Ne poteva essere le scadenze assegnate ai singoli per svolgere un dato lavoro, visto che anche in questo caso quella timeline si dilatava, quasi che il tempo previsto per realizzare una parte del lavoro era una convenzione che tutti sapevano sarebbe ranza di una pensione «tranquilla» era riposta nei fondi pensione, legittimati da una legge ad andare in borsa. Il salario, tanto nella sua forma diretta che indiretta, diventava una variabile dipendente del capitale finanziario.

Una tendenza riferita non ai soli Stati Uniti, perché, come un mefitico virus, si è diffusa mutando a seconda dei diversi «habitat» in tutto il capitalismo, da Chicago a Milano, da Tokyo a Parigi. La rete come regno della libertà era quindi una narrazione fiabesca di un’isola che non c’è. Eppure, qualcosa nella produzione high- tech era accaduto.

La rete, come il software o la miniaturizzazione dei chip, ha bisogno di innovazione, di idee, di miglioramenti continui.

E l’innovazione è esito della cooperazione sociale, delle relazioni informali dentro e fuori il luogo di lavoro. Nasce da condivisione delle conoscenze, che non hanno padroni, ma rimangono di proprietà dei singoli. È questo il motivo che i quarant’anni di esistenza di Internet è stata scandita da continui interventi legislativi in materia di brevetti e copyright, in maniera tale che l’innovazione, le idee diventassero proprietà delle imprese. Il diritto d’autore e i brevetti non servono cioè solo a disciplinare le attività degli «utenti» della rete, ma anche a disciplinare e tenere sotto controllo la forza-lavoro.

E quando su Internet irrompe la produzione di software e di contenuti free o open source sono in molti a indicare nella organizzazione del lavoro messa in campo per la produzione del sistema operativo Linux la forma compiuta di un processo produttivo adeguato alla situazione della rete. Divisione del lavoro sempre definita collegialmente, verifica del prodotto delegata alla community degli sviluppatori, definizione di una gerarchia in base al merito.

Rimane il problema di come adattarla a una dimensione economia che faccia profitti. Finora, nessuna soluzione è risultata davvero efficace.

C’è però un altro elemento che risulta irriducibile a qualsiasi dimensione economica, fosse anche quella del «dono», come viene chiamata la produzione open in rete. In primo luogo, l’indifferenza, meglio l’ostilità a qualsiasi tentativo di «colonizzazione» della rete da parte delle imprese in nome della critica alla gerarchia qualunque essa sia – le discussioni più accese tra le centinaia di migliaia di uomini e donne che sviluppano Linux sono sempre sulla presenza di una gerarchia, seppur definita attraverso un criterio meritocratico - il lavoro come gioco, il desiderio di autonomia e indipendenza dalla imprese.

In altri termini, Internet è refrattaria a una completo addomesticamento, come testimonia il pamphlet letterario più corrosivo sul lavoro in rete, quel Microservi di Douglas Coupland dove un gruppo di programmatori abbandona la Microsoft perché considera la società di Bill Gates una sorta di sofisticato regime schiavistico.

Né è possibile, come fanno alcuni degli studiosi meno banali del World Wide Web (Pekka Himanen e Manuel Castells), parlare di un’etica hacker del capitalismo senza fare i conti con il fatto che è proprio l’etica hacker a costituire il background culturale della critica all’uso capitalistico della rete.

Dal 1969, anno in cui i primi computer sono stati collegati in rete, molti bit hanno circolato su Internet e il lavoro nel web rimane un puzzle di cui sono noti solo alcuni tasselli. E quando la crisi economica si è dispiegata, quel puzzle si è maggiormente complicato, mettendo in discussione ciò che in quarant’anni di esistenza si era compreso. La scommessa da fare è comprendere come il puzzle si è scomposto, perché se si vuole capire il futuro bisogna propria partire non solo dalla concentrazione della proprietà o dalle strategie imprenditoriali di questa o quella multinazionale high-tech, bensì da quella locomotiva che tutto trascina che è appunto il lavoro in rete.

Il GooglePlex sorto a poche miglia da Mountain View viene sistematicamente descritto come un campus. Al suo interno c’è la mensa che dispensa di tutto, compresi cibi veganiani o biologici, una grande biblioteca aperta 24 ore su 24, palestre, campi da tennis, di football, piscine, mentre per i pargoli dei dipendenti c’è anche un efficiente e antiautoritario asilo.

Ma ciò che colpisce i visitatori è il clima informale tra manager e semplici lavoratori. E, ciliegina sulla torta, la regola interna che permette a ogni programmatore o analista di sistema di usare parte del tempo di lavoro per coltivare progetti personali. È la cosiddetta regola del «venti per cento» che per Google ha rappresentato un filone aureo per quanto riguarda l’innovazione. La leggenda narra che il servizio GoogleNews, la posta elettronica e altri prodotti distribuiti gratuitamente dalla società di Mountain View siano stati sviluppati all’interno della regola del «venti per cento».

E altrettanto leggendario il fatto che i fondatori Sergej Brin e Larry Page invitino i propri dipendenti a partecipare alla festa chiamata del Burning Man, dove artisti, hacker, studenti universitari, anarchici e discendente dei freakkettoni si riuniscono a Black Rock nel Nevada per dare vita al dionisiaco happening in cui tutto è consentito fino a quando viene bruciato un uomo di paglia, cerimonia rituale per indicare l’armonia cosmica o la riconciliazione degli umani con la natura.

Al di là delle leggende, è un dato di fatto che Google è una delle imprese che più di altre ha fatto propria la cosiddetta etica hacker, cioè quell’invito alla condivisione del sapere e all’egemonia del merito rispetto a altri criteri per definire la carriera come stella polare della propria organizzazione del lavoro.

E non è un caso che i lavoratori di Google siano spesso personaggi di rilievo nelle liste di discussione sulla produzione di software open source, come d’altronde «aperti» siano gran parte dei programmi sviluppati a Mountain View, eccetto PageRan utilizzo è gratuito per la società simbolo di Internet in questo inizio millennio.

Tutto ciò testimonia che Google è davvero una società «anomala », quasi appunto un campus dove massima è la libertà nel lavoro. Un’anomalia tuttavia po ssibile perché i dipendenti sono pochi – alcune migliaia in tutto il mondo – e perché è riuscita a trovare il modo di fare ingenti profitti – la pubblicità degli inserzionisti – con una «infrastruttura» tecnologica e di software abbastanza snella che relega la produzione di software sempre nel campo della «ricerca e sviluppo».

Google è davvero una società innovativa e che è organizzata più che come un campus come
un laboratorio di ricerca, dove le gerarchie devono essere ridotte al minimo per lasciare il massimo di autonomia ai lavoratori, che devono sentirsi «liberi» di esprimere al massimo la loro creatività.

La domanda a cui ancora non c’è risposta è se il modello di Google possa diventare la norma. I dubbi sono leciti, come è lecito il sospetto che tale organizzazione possa essere mantenuta qualora la concorrenza di altre «imprese totali» diventi una realtà.


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