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agosto 11, 2012

Olimpiadi: Giochi di potere, come un ideale di fratellanza, pace e liberta si sia trasformato in arma del più forte.

olimpiadi_adidas_500Un volume su 116 anni di Olimpiadi politiche spiega come un ideale di fratellanza, pace e liberta si sia trasformato in arma del più forte. I cinque cerchi, dall’antica Grecia alle esigenze di Stati nazione, superpotenze e affaristi. La potenza dell’Adidas.

Dopo trentasei anni, sappiamo che Stefano Jacomuzzi ha un erede che ha per nome Nicola Sbetti. Son passati oltre sette lustri dall’uscita del capolavoro del novese, mentre per sciocchezze o fatti di basso conto in ben 36 mesi possiamo avere più titoli o edizioni su argomenti sciocchi e/o leggeri, per evitare il termine ‘inutili’.

Ciò non dipende unicamente dalla pochezza intellettiva dei clienti del mercato, ma pure perché - come afferma Sergio Giuntini nella prefazione di Giochi di potere. Olimpiadi e politica da Atene a Londra 1896-2012 di Sbetti (Le Monnier, Firenze 2012) - non si vuole ammettere per il fatto «che rivisitare un Giro d’Italia, un campionato calcistico o un’Olimpiade voglia dire, solo e pienamente, fare storia contemporanea.

Un’affermazione forte in una realtà, quale quella italiana, in cui non da tanto lo sport ha cominciato a ottenere considerazione e dignità in seno all’Accademia, e in specie nei corsi di laurea in Lettere, Filosofia, Sociologia, Scienze Politiche, Scienze della Comunicazione. Ne sapeva qualcosa Stefano Jacomuzzi, l’autore cui dobbiamo il più significativo lavoro pubblicato in Italia sulla storia olimpica. Nelle occasioni giuste Jacomuzzi raccontava quante difficoltà avesse incontrato da docente universitario di Letteratura a Torino quando cominciò a occuparsi seriamente di sport. Per numerosi suoi colleghi perdeva in autorevolezza, studiare lo sport appariva una sorta di diminutio.

Un atteggiamento tra lo snobistico e l’intellettualistico, ma anche un po’ provinciale, cui Jacomuzzi reagì, appunto, con quella Storia delle Olimpiadi (Einaudi, 1976) che resta un esempio insuperato di rigore scientifico e chiarezza espositiva. Scritta con la profondità dello storico e lo stile accattivante del letterato». È un’antica e pessima abitudine del tutto italiana, quella di credere che chi si occupi di sport, attivamente e/o bigliograficamente, sia o un fannullone alla ricerca di facili guadagni alla stessa stregua di un giocatore d’azzardo senza scrupoli o un illuso dilettante che «dovrebbe pensare a cose più importanti», oppure – nel migliore dei casi – uno svampito. Pensate che – narra Sbetti – quando l’Italia ebbe il suo esordio olimpico a Parigi nel 1900, gli atleti si recarono nella capitale transalpina nel più assoluto menefreghismo dell’esecutivo in quanto «[l]o sport in Italia fra Ottocento e Novecento non [aveva] finalità prettamente ideologiche, tant’è che v[eniva] trascurato dallo Stato liberale, perché si rit[eneva] che veni[sse] praticato da perditempo».

Anche i non addetti ai lavori sanno bene che sin dal XIX secolo i paesi democratico-borghesi curavano lo sport nei minimi particolari - Gran Bretagna, Francia, Olanda, Belgio, ecc. - affinché essi divenissero modelli esemplari e specchio non solo delle rispettive società, ma degli imperi con i quali tali Stati si dividevano il mondo. Che poi l’Italia fascista abbia usato lo sport, rafforzandolo e ponendolo all’acme internazionale, è una delle tante ragioni che spiega l’inefficienza dei governi liberali pre-1922. Sbetti ci dice che i dilettanti di Stato non furono un’invenzione lenin-staliniana, bensì un’idea della Svezia nel 1912 (2ª: 1912, 1920, 1948), che l’Italia mussoliniana perfezionò (2ª: 1932, ineguagliato; due volte campione del mondo di calcio, 1934 e 1938, una volta olimpico, 1936, ecc.) con la Germania nazista (inizialmente contraria alle partecipazioni internazionali) a ruota (1ª: 1936) e che l’Unione Sovietica prima (1ª: 1956, 1960, 1972, 1976, 1980, 1988 e... 1992) e i satelliti dopo (Germania Est: 2ª 1976, 1980 e 1988) presero a copiare e consolidare fino a quando anche la Cina popolare non ne ha tratto profitto (1ª: 2008).
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Dalle pagine di Giochi di potere apprendiamo pure un tema molto a cuore ai lettori di Limes: il processo che ha condotto l’Adidas a diventare il decisore verticistico dello sport mondiale. E v’è una sincronia esatta fra ciò che riporta l’autore e gli albi d’oro-sponsor di Campionati mondiali, europei e olimpici di calcio.
 
L’elezione dell’allora sconosciuto (fuori Spagna) ex franchista riciclato Juan Antonio Samaranch (1920-2010) alla presidenza del Cio fu voluta da una ‘cupola affaristica’ che aveva come boss il manager dell’Adidas, Horst Dassler (1936-87); in modo, sostiene giustamente Sbetti, da "consentire alle forze economiche di penetrare all’interno del movimento olimpico". Samaranch fu scelto però anche con l’accordo di João Havelange, dal 1974 capo assoluto della più potente federazione sportiva internazionale, la Fifa. Il tedesco e il brasiliano controllavano rispettivamente i voti dei blocchi geopolitici africano e latino. L’Africa, molto più propensa nei confronti di un ex breve, e meno esteso colonialismo, quello guglielmino; mentre Havelange - autorità di spicco della potente borghesia brasiliana (a cavallo fra dittature interne e aperture verso i paesi in via di sviluppo negli affari esteri) - rappresentava la scelta terzomondista in seno al potente pallone mondiale, che prima di lui era stato sempre in mano a esponenti dello screditato imperialismo anglo-francese.

In vista delle Olimpiadi di Seoul (1988), nelle qualità di presidente anche della International Sport Leisure Agency, Dassler firmò col Cio un programma quadriennale di sponsorizzazione mondiale ("The Olympic Partners") che permise allo stesso Comitato di accumulare riserve per 5 milioni di dollari e di mettere al sicuro, per la prima volta nella sua storia, le proprie finanze. Con la stipula del ‘trattato’, Dassler fu definito l’‘eminenza grigia’ del movimento olimpico. Del resto fu proprio Dassler a premere affinché, il 30 settembre 1981, Seoul fosse preferita a Nagoya, in quanto l’Adidas intratteneva più importanti relazioni con la Corea del Sud (allora dittatura sotto il pugno di ferro del gen. Chun Doo-hwan) piuttosto che col democratico Giappone.

Dassler fece di tutto anche per evitare un possibile boicottaggio a guida Urss per solidarietà a Pyongyang contro Seoul e organizzò una serie d’incontri fra il Comitato organizzatore sudcoreano e il ministero sovietico dello Sport. Nel gennaio 1988 Mosca accettò di partecipare: quel giorno la borsa di Seoul raggiunse la quota massima della sua storia. Boicottarono solo le irricattabili Albania, Comore, Cuba, Etiopia, Madagascar, Nicaragua, São Tomé e Príncipe e Seicelle. La scomparsa di Dassler non bloccò di certo l’influenza della ditta tedesca in tali àmbiti.

Il tandem Samaranch-Adidas fu risolutivo, nel 1992, nella risoluzione dei problemi d’immagine dell’appena defunta Urss. A presentare a Barcellona l’ex colosso in veste competitiva (onde magnificare la capitale catalana col crisma dell’universalità sportiva) provvide innanzitutto Samaranch, recatosi a Mosca per intavolare colloqui con Boris El’cyn sulla questione baltica e sulle restanti dodici repubbliche sovietiche in attesa del riconoscimento dei propri comitati olimpici. Dall’altra parte, l’Adidas pagò gran parte delle spese di trasferta e soggiorno dell’ex ‘Impero del male’ in Spagna.

In definitiva il presidente e il marchio s’inventarono dal nulla la ‘squadra unificata’ della Comunità di Stati Indipendenti che, guarda caso, a Barcellona superò ancora gli Stati Uniti. L’inedita alleanza ispano-germanico-sarmatica umiliò la tradizionale intesa anglo-franco-statunitense avvalendosi degli ex comunisti che con entusiasmo accettarono un ‘Piano Marshall’ europeo. Da qui si evince l’eredità del defunto presidente del Cio, trasmessa alla sua Nazionale di fútbol, campione del mondo 2010 ed europea 2008 e 2012, già campione olimpica e proprio a Barcellona: ossia la quadratura del cerchio.
Il libro di Nicola Sbetti - di ricchissima bibliografia - è un vero e proprio esaustivo manuale di storia delle relazioni internazionali, che dovrebbe essere adottato da tutte le cattedre universitarie di storia degli sport.

Le Olimpiadi rappresentano da sempre, più dei mondiali di calcio, il termometro degli equilibri del pianeta. Se sono trascorsi quasi quarant’anni dal penultimo testo in argomento, ciò è dovuto alla questione che nel nostro paese coloro che si occupano direttamente di sport non sono in grado di leggere gli scenari fra le righe di un evento. Il provincialismo antisportivo rafforzato dal Sessantotto; i preziosismi sul fatto fine a se stesso; il gossip sull’individuo; la dissipazione logorroica in merito al particolare; l’ignoranza socio-storica degli addetti ai lavori: tutto ciò ha per contraltare seri e preparati studiosi quali Sbetti e Marco Bagozzi fra i pochissimi. Questi stanno creando una scuola d’indagine sugli effetti della geopolitica nello sport.

Prospettiva che prese piede esattamente dieci anni fa sulle pagine di Limes nel tentativo di sfatare l’indipendenza del risultato tecnico da quello deciso ‘ex ante’.

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