Seguimi in Twitter Seguimi in Facebook Seguimi in Pinterest Seguimi in LinkedIn Sottoscrivi il feed

maggio 07, 2013

Giulio Andreotti altro che faldoni, ecco la sentenza–da ricordare - (4a parte).

wojtyla-andreotti14) L’intervento che Licio Gelli (intenzionato a candidarsi in Calabria) avrebbe richiesto al sen. Andreotti per la revisione della condanna dei fratelli Gianfranco e Riccardo Modeo.

Tale intervento risulterebbe dall’intercettazione di una pluralità di conversazioni intercorse tra vari soggetti, tra cui Marino Pulito (imputato di reato connesso), Alfonso Pichierri, Anna Quero (convivente di Riccardo Modeo), Vincenzo Serraino, Lucia Santoro (moglie di Gianfranco Quero) e altri individui.

Anche in questo caso, la sentenza di primo grado è pervenuta alla conclusione che gli elementi di convincimento acquisiti non valevano a dimostrare che il sen. Andreotti avesse ricevuto da Gelli una richiesta di intervenire per assicurare l’esito positivo del processo di revisione della condanna riportata dai fratelli Riccardo e Gianfranco Modeo, né, tanto meno, che Andreotti avesse effettivamente compiuto azioni volte a conseguire tale risultato.

4- Le conclusioni del Tribunale
All’esito dell’esame critico delle emergenze processuali e del complesso probatorio acquisito al dibattimento, il Tribunale ha concluso che la prova della responsabilità penale dell’imputato, con specifico riferimento alle varie condotte criminose contestate, era risultata insufficiente, contraddittoria e in alcuni casi anche del tutto mancante, imponendo pertanto una pronuncia assolutoria ai sensi dell’art. 530 comma 2 c.p.p..

Quindi ha ripercorso sinteticamente le singole vicende rilevando, a conforto della decisione assunta:
1) L’asserzione dell’imputato di non avere intrattenuto alcun rapporto con i cugini Salvo era risultata inequivocabilmente contraddetta dalle risultanze probatorie che avevano dimostrato l’esistenza di molteplici rapporti di carattere politico, giudiziario e personale, tuttavia esse non erano tali da dimostrare che l’imputato avesse manifestato ai cugini Salvo una permanente disponibilità ad attivarsi per il conseguimento degli obiettivi propri dell’associazione mafiosa, o, comunque, avesse effettivamente compiuto, su loro richiesta, specifici interventi idonei a rafforzare l’illecito sodalizio.

2) I rapporti con l’on. Salvo Lima erano stati forti e intensi; l’on. Lima aveva assunto il ruolo di capo della corrente andreottiana in Sicilia e raggiunto una posizione di rilevante forza politica rispetto agli altri esponenti del partito e ai rappresentanti delle istituzioni, sia in sede locale sia a livello nazionale; il medesimo aveva attuato, tanto prima quanto dopo la sua adesione alla corrente andreottiana, una stabile collaborazione con Cosa Nostra ed esternato all’on. Evangelisti la propria amicizia con Tommaso Buscetta, esprimendo altresì una chiara consapevolezza dell’influenza di quest’ultimo.

Ma non era stato dimostrato che il sen. Andreotti avesse tenuto specifici comportamenti suscettibili di assumere rilevanza penale, in quanto non era rimasto sufficientemente provato che l’imputato, nell’ambito dei rapporti politici con l’on. Lima, avesse posto in essere una condotta di inserimento organico nella struttura dell’associazione di tipo mafioso, ovvero avesse effettivamente realizzato specifici interventi idonei ad assicurare l’esistenza o il rafforzamento di Cosa Nostra in una fase patologica della sua vita.

3) Vito Ciancimino aveva instaurato rapporti di collaborazione con la corrente andreottiana, sfociati poi in un formale inserimento in tale gruppo politico e tali rapporti avevano ricevuto, su richiesta dello stesso Ciancimino, l’assenso del sen. Andreotti nel corso di un incontro appositamente organizzato a questo scopo.
Vi avevano fatto seguito ulteriori manifestazioni di cointeressenza, sia sotto il profilo dei finanziamenti finalizzati al pagamento delle quote relative al “pacchetto di tessere” gestito da Ciancimino, sia sotto il profilo dell’appoggio dato dai delegati vicini a Ciancimino alla corrente andreottiana in occasione dei congressi nazionali del partito svoltisi nel 1980 e nel 1983.

Tuttavia, anche in questo caso, le risultanze dell’istruttoria dibattimentale non avevano dimostrato che il sen. Andreotti, nell’ambito dei rapporti politici sviluppatisi con Ciancimino, avesse espresso una stabile disponibilità ad attivarsi per il perseguimento dei fini propri dell’organizzazione mafiosa, ovvero avesse compiuto concreti interventi funzionali al rafforzamento di Cosa Nostra.

4) L’incontro con Frank Coppola non era stato dimostrato perché il quadro di riferimento di tutta la vicenda, narrata dall’imputato di reato connesso Federico Coniglia, era rimasto estremamente generico e privo di riscontri validi.

5) Erano certi i rapporti tra il sen. Andreotti e Michele Sindona, che lo considerava un importantissimo punto di riferimento politico, cui potevano essere rivolte le proprie istanze attinenti alla sistemazione della Banca Privata Italiana e ai procedimenti penali che il finanziere siciliano doveva affrontare in Italia e negli U.S.A.. A questo atteggiamento di Sindona aveva fatto riscontro un continuativo interessamento del sen. Andreotti, proprio in un periodo in cui egli ricopriva importantissime cariche governative, dimostrato anche da alcuni specifici comportamenti che apparivano concretamente idonei - ex ante - ad avvantaggiare Sindona nel suo disegno di sottrarsi alle conseguenze delle proprie condotte e inequivocabilmente rivolti a questo fine, quali il sostegno alla nomina del dott. Mario Barone a terzo amministratore delegato del Banco di Roma e il conferimento al sen. Stammati e all’on. Evangelisti dell’incarico di esaminare il secondo progetto di sistemazione della Banca Privata Italiana.

Ma non era stato sufficientemente provato che il sen. Andreotti, al momento in cui aveva realizzato i comportamenti suscettibili di agevolare Sindona, fosse consapevole della natura dei legami che univano costui ad alcuni autorevoli esponenti dell’associazione mafiosa e, anzi, non era stata neppure acquisita la prova certa che, al momento in cui aveva tenuto i predetti comportamenti, l’imputato fosse in possesso di informazioni tali da ingenerare in lui la consapevolezza che gli effetti del suo operato avrebbero potuto assumere una notevole importanza per gli esponenti mafiosi per conto dei quali Sindona svolgeva attività di riciclaggio.

6) Non era stato adeguatamente provato neppure il presunto intervento del sen. Andreotti a favore dell’imprenditore petrolifero laziale Bruno Nardini.

Infatti non aveva trovato conferme l’isolata dichiarazione di Mammoliti, le cui motivazioni a deporre avevano suscitato legittime riserve.

7) Il presunto regalo di un quadro a Giulio Andreotti da parte di Stefano Bontate e Giuseppe Calò non poteva ritenersi provato a causa dell’assoluta genericità del ricordo del dichiarante Francesco Marino Mannoia proprio sugli aspetti essenziali della vicenda.

8) Il presunto incontro a Roma tra Gaetano Badalamenti, uno dei cugini Salvo, Filippo Rimi e Andreotti in relazione al preteso “aggiustamento” del processo a carico di Vincenzo e Filippo Rimi costituiva uno degli episodi posti dall’accusa a fondamento della tesi dell’esistenza di un patto di scambio tra Cosa Nostra e Giulio Andreotti. Ma le dichiarazioni di Tommaso Buscetta, principale fonte di accusa, sin dall’origine erano risultate viziate da estrema contraddittorietà e da manifesta genericità.

9) Il coinvolgimento dell’imputato nelle iniziative dirette alla liberazione, tramite Cosa Nostra, dell’on. Moro, sequestrato dalle Brigare Rosse, era, per esplicita affermazione dello stesso Buscetta, soltanto frutto di una sua deduzione, nulla risultandogli di specifico al riguardo.

10) Indimostrati erano rimasti anche i presunti incontri tra Giulio Andreotti e l’esponente di Cosa Nostra Michele Greco nella saletta riservata dell’Hotel Nazionale a Roma, perché le dichiarazioni di Benedetto D’Agostino non erano state sufficientemente riscontrate.

11) Anche in ordine al presunto incontro a Catania, nella primavera – estate del 1979, tra Giulio Andreotti e Benedetto Santapaola, cui avrebbe partecipato anche l’on. Salvo Lima, era stato accertato che il teste Vito Di Maggio, indotto inconsapevolmente dalla volontà di rendersi comunque utile alle forze di polizia e alla magistratura, aveva, con numerose imprecisioni, rappresentato e riferito come certezze quelle che si erano rivelate invece soltanto vaghe ed errate impressioni, riferendo fatti talora in maniera non del tutto corrispondente alla realtà.

12) I due presunti incontri del sen. Andreotti con Stefano Bontate e altri esponenti di Cosa Nostra a Catania e a Palermo, strettamente collegati alla causale dell’omicidio del Presidente della Regione Siciliana on. Piersanti Mattarella, avvenuto a Palermo il 6 gennaio 1980, non erano stati provati dall’Accusa, perché i riferimenti temporali forniti da Francesco Marino Mannoia in ordine all’epoca del primo incontro erano risultati caratterizzati da estrema genericità e approssimazione e, comunque, non si era riusciti a dimostrare a quale titolo e con quali strumenti l’imputato avrebbe dovuto e potuto fare ciò che gli veniva richiesto, cioè influire su Piersanti Mattarella allo scopo di fargli mutare la linea di condotta politica e amministrativa che confliggeva con gli interessi di Cosa Nostra.

13) L’intervento, che sarebbe stato compiuto dall’on. Lima e dal sen. Andreotti, per ottenere il trasferimento di alcuni detenuti siciliani dal carcere di Pianosa a quello di Novara nell’anno 1984, era risultato dalle dichiarazioni del collaborante Gaetano Costa, le quali avevano trovato, negli elementi probatori acquisiti, puntuale riscontro in ordine al contesto in cui avevano avuto origine e sviluppo i suoi rapporti con Bagarella, alle manifestazioni di protesta organizzate presso la Casa di Reclusione di Pianosa, all’identità dei destinatari del provvedimento di trasferimento, alla collocazione cronologica dei fatti. Era emersa anche l’assoluta anomalia del provvedimento con cui era stato disposto il trasferimento dei detenuti, senza alcuna indicazione di ragioni giustificative e in carenza di qualsiasi atto presupposto.

Ma non erano stati acquisiti riscontri estrinseci dotati di carattere individualizzante, da cui poter trarre il sicuro convincimento dell’esattezza del riferimento del fatto delittuoso alla persona dell’imputato.

14) Il colloquio riservato tra il sen. Andreotti e Andrea Manciaracina, svoltosi all’Hotel Hopps di Mazara del Vallo il 19 agosto 1985, era sicuramente provato grazie alla testimonianza resa dal Sovrintendente Capo di P.S. Francesco Stramandino, ma mancava qualsiasi elemento che consentisse di ricostruirne il contenuto e nel successivo comportamento tenuto dal sen. Andreotti non erano ravvisabili specifici elementi sintomatici di una sua adesione alle istanze prospettate dal Manciaracina.

15) Il presunto incontro, verificatosi a Palermo nel 1987, tra l’imputato e Salvatore Riina non valeva a dimostrare l’esistenza, anche alla fine degli anni ’80, di intensi rapporti tra Giulio Andreotti e Cosa Nostra, perché le dichiarazioni di Baldassare Di Maggio, che a quell’incontro assumeva di avere accompagnato Salvatore Riina e di esserne stato quindi testimone diretto, erano risultate in più parti contraddittorie e prive di adeguati riscontri.

16) Le aspettative, diffuse in seno a Cosa Nostra, di un “aggiustamento” del maxiprocesso, che sarebbe intervenuto grazie alla disponibilità da parte del dott. Corrado Carnevale, Presidente della Prima Sezione Penale della Corte di Cassazione, a seguito di un patto illecito esistente tra il medesimo e l’on. Andreotti, aggiustamento che avrebbe dovuto condurre all’annullamento della condanna pronunciata a carico di numerosi esponenti del sodalizio mafioso nei due giudizi di merito, non avevano dato risultati negativi per l’imputato perché il quadro complessivo delineatosi era estremamente confuso e contraddittorio e, quindi, era risultata carente anche la prova di eventuali manovre poste in essere per l’aggiustamento del maxiprocesso nella fase del giudizio di Cassazione e della attribuibilità di tali eventuali manovre ad Andreotti.
17) Era possibile ipotizzare che Andreotti avesse intrattenuto rapporti con Livio Gelli, ma non che essi si fossero protratti sino al 1991. In ogni caso non era emerso alcun diretto collegamento tra il sen. Andreotti e la Lega Meridionale, cui Gelli intendeva dare vita. Né si comprendeva quale interesse potesse avere l’imputato al conseguimento di un sostegno elettorale per un movimento politico diverso dal partito in cui egli militava.
 
5- L’appello del P.M.
La sentenza è stata impugnata dal Procuratore della Repubblica presso il Tribunale e dal Procuratore Generale presso la Corte di Appello di Palermo, che ne hanno chiesto la riforma con affermazione della responsabilità dell’imputato.

Secondo i P.M. il Tribunale ha violato i principi giurisprudenziali concernenti sia gli elementi costitutivi dei reati contestati, principi che - ove correttamente applicati - avrebbero determinato l’affermazione della responsabilità dell’imputato già sulla scorta dei soli fatti ritenuti pienamente provati nella stessa motivazione della sentenza, sia l’apprezzamento delle prove con specifico riferimento ai criteri di valutazione delle dichiarazioni dei collaboratori di giustizia in generale e, in particolare, delle dichiarazioni “de relato”, oltre che alla valutazione sintomatica delle menzogne dell’imputato.

Inoltre, anziché procedere ad una analisi unitaria degli elementi di prova, come pure si era riproposto di fare nella premessa generale della motivazione, il primo giudice ha proceduto non già semplicemente all’analisi atomistica degli stessi elementi, ma addirittura alla destrutturazione del compendio probatorio, che si era articolata: nell’analisi isolata di ciascun elemento di prova (atomizzazione); nell’asserzione aberrante della necessità, per ciascun elemento isolatamente considerato, di riscontri che, in realtà, sarebbero state prove autonome e dirette del fatto contestato; nella sistematica e inspiegabile omissione della considerazione, per ciascuno degli elementi esaminati, dei riscontri che erano, in realtà, emersi nel dibattimento e che erano costituiti da fatti ritenuti pienamente provati in altre parti della motivazione (destrutturazione).

I P.M. hanno, dunque, lamentato che il Tribunale ha destoricizzato, decontestualizzato e destrutturato il compendio probatorio.

Quindi hanno esaminato, anche a titolo esemplificativo, alcuni dei rapporti e degli episodi considerati dal primo giudice (i rapporti dell’imputato con l’on. Salvatore Lima, con Vito Ciancimino, con Michele Sindona, l’episodio concernente il trasferimento di Leoluca Bagarella e di altri detenuti siciliani dal carcere di Pianosa a quello di Novara nell’anno 1984, l’incontro con il mafioso Andrea Manciaracina, la vicenda Nardini), assumendone la pregnante efficacia probatoria.

A titolo esemplificativo del metodo adottato dagli appellanti, basta citare i loro riferimenti al prestigio politico acquisito da Lima e all’asserito rafforzamento della corrente andreottiana nella ritenuta piena consapevolezza del rapporto di stabile collaborazione instaurato con Cosa Nostra, di cui hanno sostenuto essere stata accresciuta la potenziale capacità operativa (ad esempio attraverso il controllo di attività economicamente rilevanti) in cambio del sostegno elettorale.

Sempre a titolo esemplificativo, gli appellanti hanno sostenuto doversi considerare del tutto irrilevanti le argomentazioni del Tribunale circa la (presunta) difficoltà di provare la c.d. “affectio societatis” (configurata come dolo specifico) e hanno aggiunto che era stato del tutto omesso di rilevare che i fatti ritenuti provati con certezza dimostravano (quanto meno) l’esistenza del dolo generico del reato di concorso esterno in associazione mafiosa, considerato anche che il Tribunale aveva omesso di rilevare il carattere infungibile del contributo offerto da Andreotti, essendo evidente, che - senza di esso - non sarebbero stati raggiungibili, mediante il ricorso alla normale opera degli associati, gli obiettivi, pure strettamente collegati alla conservazione e al consolidamento della organizzazione mafiosa, della forza politica, economica e di potere che Cosa Nostra aveva acquisito utilizzando, come struttura di servizio, la corrente andreottiana.

In definitiva – a loro giudizio - Andreotti, pur non essendo formalmente affiliato all’organizzazione mafiosa, aveva instaurato con essa un rapporto di stabile e sistematica collaborazione, realizzando comportamenti che avevano arrecato vantaggio all’illecito sodalizio; era divenuto il referente politico abituale di Cosa Nostra e aveva goduto del suo sostegno elettorale, ciò risolvendosi in un continuativo contributo, rilevante sul piano causale, all’esistenza e al rafforzamento dell’illecito sodalizio.

Quanto alla valutazione del compendio probatorio, essi hanno ribadito che la disposizione dettata dall’art. 192, commi 3 e 4 c.p.p. ha condotto la giurisprudenza di legittimità a riconoscere che le dichiarazioni dei soggetti indicati dalla medesima hanno natura di prova, e non di mero indizio, sicché il riscontro probatorio estrinseco non deve avere la consistenza di una prova autosufficiente di colpevolezza, dovendo esso formare oggetto di giudizio complessivo assieme alla chiamata e può essere di varia natura, anche di carattere logico, così come tra i riscontri esterni, idonei a confermare la attendibilità delle dichiarazioni dei soggetti indicati dall’art. 192, commi 3 e 4 c.p.p., debbono essere valutati “il comportamento del chiamato in correità, ancorché successivo al fatto-reato” e “l’alibi falso, in quanto sintomatico, a differenza di quello non provato, del tentativo dell’imputato di sottrarsi all’accertamento della verità” nonché “la rete di rapporti interpersonali, i contatti, le cointeressenze” e “i rapporti di frequentazione fra il chiamato in correità, indagato per il reato di associazione per delinquere, e altre persone indagate per il medesimo reato”.

La lamentata destoricizzazione è stata basata sull’assunto che il Tribunale ha affrontato l’esame di vicende cruciali e unitarie, snodatesi nell’arco di vari anni, durante i quali si erano verificate continue evoluzioni delle vicende medesime (situazioni di crisi, superamenti della crisi, mutamenti di strategie da parte di Cosa Nostra ecc.), appiattendole temporalmente, come se si fossero svolte in unica unità temporale.

Esempi, particolarmente significativi al riguardo, sono stati ravvisati dai P.M. nella vicenda del maxiprocesso e nell’indebita equiparazione delle dichiarazioni dei collaboratori.
La decontestualizzazione è consistita – sempre secondo i P.M. - nell’inserimento delle dichiarazioni dei collaboratori relative a fatti cruciali, come alcuni degli incontri personali tra l’imputato e i vertici di Cosa Nostra, in uno scenario completamente “desertificato”, perché privato di tutte le risultanze processuali, che costituivano il presupposto, i riscontri, la chiave di lettura delle stesse dichiarazioni.

Esemplari, al riguardo, sono state definite la vicenda di cui il collaboratore Francesco Marino Mannoia era stato testimone oculare (l’incontro tra Andreotti, l’on. Lima, i cugini Salvo, Stefano Bontate, Salvatore Inzerillo e altri “uomini d’onore” in una villa nella disponibilità di Inzerillo, avvenuto a Palermo nella primavera del 1980, dopo l’omicidio di Piersanti Mattarella), la valutazione delle dichiarazioni del collaboratore Francesco Di Carlo circa i rapporti tra i cugini Salvo e il sen. Andreotti e la vicenda Sindona, laddove il Tribunale ha concluso non essere certo che Andreotti fosse consapevole dei legami mafiosi di Sindona con Stefano Bontate e Salvatore Inzerillo, i quali avevano affidato al finanziere i loro capitali da riciclare, dimenticando i fatti già ritenuti dimostrati nell’ambito di altri capitoli, comprovanti che lo stesso Bontate aveva affermato di avere a disposizione Andreotti e che Bagarella e gli altri corleonesi odiavano il Bontate proprio perché costui li teneva fuori dal suo rapporto privilegiato con l’imputato.

Gli appellanti hanno anche sostenuto che il Tribunale ha ripetutamente travisato il dato processuale. Ciò si sarebbe verificato a proposito delle affermazioni di diversi collaboratori di giustizia e alla valenza probatoria di alcuni episodi.

Come esempi di destrutturazione sono stati citati, oltre alla mancata visione unitaria del complesso probatorio, la giustificazione delle asserite menzogne dell’imputato e la ripetuta omessa considerazione di fatti ritenuti provati in altre parti della stessa sentenza.

Di seguito i P.M. hanno esaminato il ruolo che avrebbe svolto Andreotti in relazione a richieste di interessamento riguardanti vicende giudiziarie, che gli sarebbero state rivolte da soggetti appartenenti, ovvero collegati, a Cosa Nostra.

A tale proposito hanno imputato al Tribunale di aver fornito della vicenda una ricostruzione probatoria inficiata da vari vizi di legittimità, costituiti da: insufficienza di motivazione, essendo state pressoché pedissequamente ripetute le considerazioni esposte nella memoria della difesa senza alcuna disamina della maggior parte degli argomenti addotti dal P.M.; intrinseca contraddittorietà della motivazione, in contrasto con i principi giuridici ai quali lo stesso Tribunale - nella parte preliminare della sentenza - aveva affermato di volersi attenere nel valutare le prove; contraddittorietà o mancanza di motivazione per l’assoluta omessa indicazione degli elementi di riscontro della specifica vicenda risultanti da fatti oggettivi riconosciuti come pienamente provati in altre parti della sentenza.

Gli appellanti, in esito a tale disamina, hanno affermato che, dalle dichiarazioni dei collaboratori di giustizia, sono scaturite tre inequivoche e specifiche circostanze: 1) l’esistenza di un rapporto di conoscenza tra l’imputato e Gaetano Badalamenti, inizialmente instaurato - secondo le conoscenze di Buscetta, Brusca e Sinacori - grazie ai cugini Antonino e Ignazio Salvo; 2) un incontro personale tra Andreotti e Badalamenti, avente ad oggetto l’interessamento svolto per il processo Rimi; 3) il fatto che Badalamenti fosse in grado - per la natura e l’evoluzione del suo rapporto con l’imputato - di avere con lui un tale colloquio, senza che l’esponente politico lo respingesse.

Essi non hanno trascurato la vicenda Pecorelli, incentrata sulle dichiarazioni di Tommaso Buscetta, il quale era stato il primo a riferire dell’esistenza di un oscuro “intreccio” tra i segreti del sequestro Moro, il gruppo politico - affaristico facente riferimento ad Andreotti e i delitti Pecorelli e Dalla Chiesa.
Anche a tale proposito hanno menzionato una serie di elementi di prova ritenuti confermativi della fondatezza delle dichiarazioni di Buscetta, rilevando che le omissioni, sottovalutazioni e travisamenti delle risultanze processuali operate dal Tribunale avevano impedito di accertare la sussistenza dei reati associativi contestati all’imputato.

Quindi si sono occupati degli ipotizzati tentativi di aggiustamento del maxiprocesso e dei rapporti tra il sen. Andreotti e il presidente Corrado Carnevale, ripercorrendo l’intera vicenda sulla scorta delle risultanze processuali – in parte asseritamene trascurate dal Tribunale – per giungere alla conclusione che Riina aveva avuto precise assicurazioni da Andreotti che l’esito in Cassazione sarebbe stato favorevole; che sussistevano i rapporti – negati dal Tribunale - tra l’imputato e il presidente Carnevale (vedi l’interessamento del primo a favore del secondo per la presidenza della Corte di Appello di Roma e in occasione di un procedimento disciplinare); che l’opera del dr. Carnevale era stata ostacolata dall’intervento del primo presidente della Corte Suprema, dr. Brancaccio.

A loro dire, l’esito del maxiprocesso avrebbe costituito una sconfitta personale per Riina e sarebbe stato all’origine dell’assassinio dell’on. Lima e, forse, anche di quello di Ignazio Salvo.

Parte non trascurabile dell’appello è stata dedicata ad alcuni dei supposti incontri di Andreotti con i vertici di Cosa Nostra e, in particolare, agli incontri che, secondo l’accusa, sarebbero avvenuti in Sicilia nel 1979 e nel 1980 con Stefano Bontate e altri “uomini d’onore”.

In questo contesto i P.M. si sono soffermati sullo scontro tra i “corleonesi” e l’ala moderata di Cosa Nostra, sullo scenario che aveva generato l’attacco a Piersanti Mattarella, definito una delle prime vittime del nuovo corso di Cosa Nostra e del contestuale e corrispondente riassetto di poteri all’interno del partito della Democrazia Cristiana in Sicilia, sul ruolo dell’on Rosario Nicoletti (di cui poi hanno tracciato il profilo riferendo anche dei suoi rapporti con esponenti di Cosa Nostra), segretario regionale della D.C. suicidatosi il 17 novembre 1984, cinque giorni dopo l’arresto dei cugini Salvo, il quale improvvisamente e inopinatamente aveva preso le distanze dall’on. Mattarella, e, all’esito, hanno rilevato che le indagini svolte in merito avevano fornito ulteriori e precisi riscontri circa la partecipazione dello stesso Nicoletti all’incontro riferito da Marino Mannoia e circa l’atteggiamento assunto dal medesimo nei confronti di Mattarella.

Secondo gli appellanti, l’eliminazione di Piersanti Mattarella aveva spianato la strada all’andreottiano Mario D’Acquisto - i cui rapporti con Cosa Nostra erano stati riferiti da una pluralità di collaboratori di giustizia - coronando così l’ambizione della corrente di avere un suo uomo al vertice della Regione.
Essi hanno ricomposto le risultanze processuali configurando il quadro seguente: Bontate aveva tentato di “affievolire” il discorso su Mattarella e cercato di evitare il ricorso alla via dell’eliminazione fisica, sottoponendo il problema ad Andreotti – con il quale il suo schieramento aveva all’epoca un rapporto privilegiato se non esclusivo – facendogli carico di trovare una soluzione alternativa. Ma essa non era arrivata e la Commissione aveva deciso l’esecuzione dell’omicidio, anche con il consenso di Bontate, che in quel momento non aveva più la forza per far passare dinanzi alla maggioranza “corleonese” una linea ulteriormente attendista. Quando Andreotti era tornato a Palermo, nella primavera del 1980, per chiedere spiegazioni sull’omicidio, Bontate si era rivoltato contro quello che era sempre stato il suo referente politico.

Infine hanno analizzato gli incontri del sen. Andreotti con i vertici di Cosa Nostra nel 1979 e nel 1980, esaminando in successione i seguenti tre aspetti: 1) l’attendibilità personale di Marino Mannoia, su cui lo stesso Tribunale aveva espresso un giudizio pienamente positivo; 2) l’attendibilità intrinseca delle sue dichiarazioni, contestandone il giudizio di genericità, contraddittorietà e incomprensibilità; 3) i riscontri esterni, ritenuti pienamente confermativi di tutti i punti delle predette dichiarazioni.

Dalla disamina gli appellanti hanno ricavato il loro convincimento circa le modalità del viaggio in Sicilia di Andreotti e dell’incontro, considerato prova della responsabilità penale dell’imputato.

Nella complessa vicenda, secondo la loro prospettazione, andava poi inserito anche l’incontro nel 1987 tra Andreotti e Riina, di cui hanno ripercorso le fasi probatorie essenziali criticando la motivazione della sentenza e rivalutando l’attendibilità personale del collaboratore Enzo Brusca e di Emanuele Brusca per ritenere dimostrati i fatti da essi riferiti.

Altrettanta credibilità i P.M. hanno attribuito alle dichiarazioni di Antonio Calvaruso e Tullio Cannella, confermative dell’incontro in esame, di cui essi hanno affermato essere al corrente anche un altro autorevole esponente di Cosa Nostra, Leoluca Bagarella.

Sempre con riferimento al tema dell’incontro tra Andreotti e Riina, i P.M. hanno esaminato le dichiarazioni di Baldassare Di Maggio, allo scopo di dimostrare come esse fossero adeguatamente riscontrate e si inserissero in un contesto probatorio doviziosamente articolato.

Da ultimo, i P.M. hanno depositato motivi aggiunti con cui hanno affrontato due ulteriori temi in precedenza trascurati: 1) l’incontro fra Andreotti e Benedetto Santapaola, avvenuto a Catania nel 1979; 2) le dichiarazioni di Francesco Marino Mannoia concernenti il regalo di un quadro al sen. Andreotti da parte di Stefano Bontate e Giuseppe Calò.

Quanto al primo episodio, hanno sostenuto che il Tribunale aveva travisato le dichiarazioni di Vito Di Maggio (dotate di adeguati riscontri) e aveva errato nel collocarlo temporalmente (secondo gli appellanti è sicuramente avvenuto dopo il 15 giugno 1979).

Quanto al secondo episodio, hanno stigmatizzato la statuizione del Tribunale circa incompletezza e insufficienza della prova del fatto specifico, tra l’altro contestando che le dichiarazioni di Marino Mannoia fossero incrinate sotto i profili della genericità e della inattendibilità intrinseca e lamentando la svalutazione delle dichiarazioni della teste Sassu.

La difesa ha depositato una memoria per contrastare le avverse argomentazioni ed esporre le proprie tesi in fatto e in diritto.
 
Ricerca personalizzata
 
Se ti è piaciuto l'articolo , iscriviti al feed cliccando sull'immagine sottostante per tenerti sempre aggiornato sui nuovi contenuti del blog: 

Trovato questo articolo interessante? Condividilo sulla tua rete di contatti Twitter, sulla tua bacheca su Facebook o semplicemente premi "+1" per suggerire questo risultato nelle ricerche in Google, Linkedin, Instagram o Pinterest. Diffondere contenuti che trovi rilevanti aiuta questo blog a crescere. Grazie! CONDIVIDI SU!

Ultime notizie, foto, video e approfondimenti su: cronaca, politica, economia, regioni, mondo, sport, calcio, cultura e tecnologia.

0 commenti:

Random Posts