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gennaio 22, 2011

L'alta tecnologia per la casa a misura di anziani e disabili.
Accendere e programmare la lavatrice, l'impianto d'illuminazione, di riscaldamento e di climatizzazione, il televisore, il lettore di Dvd e altri elettrodomestici usando un unico strumento.

Un aiuto prezioso soprattutto per chi non è autosufficiente. Il dispositivo tecnologico si chiama Urc - Universal remote consolle ed è il frutto del lavoro di un gruppo di ricercatori europei, provenienti da Spagna, Repubblica Ceca, Germania Portogallo e Svezia. Un piccolo apparecchio nato grazie ad un finanziamento di 2,7 milioni di euro che fa parte del piano europeo di sviluppo tecnologico 'Digital Agenda'.

Il progetto. Si chiama i2home 1 ed è una risposta ai problemi di molti disabili e anziani. Il dispositivo, inserito in un telecomando, all'interno di un telefono fisso o cellulare, o di un computer, permette di gestire in autonomia ogni problema domestico quotidiano. Gesti semplici, ma a volte complicati per chi non si muove con facilità. La stessa tecnologia permette poi di attivare servizi "a distanza". E' così possibile uscire da casa e avviare la lavapiatti nell'orario più comodo, magari cercando l'orario che corrisponde al maggior risparmio energetico.

Un unico telecomando. Questo strumento trasforma l'abitazione in un grande ambiente da gestire attraverso un unico telecomando. Da tempo l'utilizzo delle tecnologie dell'informazione per dar modo alle persone anziane o affette da menomazioni o disabilità di
vivere una vita autonoma e dignitosa in condizioni ottimali è uno dei principali obiettivi dell'agenda digitale europea, adottata dalla Commissione europea nel maggio 2010.

I fondi europei. "Sono molto lieta che progetti di ricerca finanziati dall'Unione europea come i2home siano in grado di sfruttare le tecnologie dell'informazione per semplificare la vita di tutti i cittadini dell'Unione europea, in particolare gli anziani, i disabili e le persone affette da menomazioni visive", ha detto Neelie Kroes, vicepresidente della Commissione europea e responsabile dell'Agenda digitale, presentando il progetto.

Il progetto BrainAble. La tecnologia i2home è già stata sperimentata in centri di assistenza diurna e in abitazioni di quattro centri paesi pilota nella Repubblica ceca, in Germania, in Spagna e in Svezia. In tutto oltre 100 organizzazioni e imprese private in Europa utilizzano già questo tipo di apparecchiature.

Altre applicazioni sono utilizzate nel progetto BrainAble, sempre finanziato dall'Unione europea, che lavora per aiutare le persone disabili migliorando la loro interazione con i dispositivi grazie a sensori cerebrali in grado di misurare sensazioni come, ad esempio, la noia, la confusione, la frustrazione o il sovraccarico di informazioni.



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Dieci anni di Osservatorio Balcani e Caucaso, una finestra su un mondo che cambia.
Due premi Baldoni, 50 corrispondenti i cui pezzi vengono letti da 100mila lettori singoli al mese, un archivio on-line con più di 10mila approfondimenti e centinaia di contributi multimediali, 5mila iscritti alla newsletter settimanale in italiano e quindicinale in inglese.

Sono i numeri di Osservatorio Balcani e Caucaso 1, una testata giornalistica on-line che apre una finestra, con inchieste e approfondimenti, su un mondo che non deve "entrare" in Europa, ma piuttosto rientrarvi, visto che dell'Europa è sempre stato parte integrante.

Dieci anni di attività. L'Osservatorio, che ha appena festeggiato i suoi dieci di attività a Rovereto, città "di frontiera" con una storia ed un presente multiculturale, dove il progetto Osservatorio Balcani e Caucaso è nato e cresciuto, esordisce all'indomani della guerra in Kosovo, per rispondere all'esigenza di accompagnare i progetti di emergenza e solidarietà rispetto ad un'area, quella della ex Jugoslavia, martoriata dalle guerre. Col tempo, i temi seguiti si sono ampliati, di pari passo con i soggetti che nei Balcani e in Caucaso si sono occupati di solidarietà e cooperazione (non più e non solo associazioni, ong e grandi agenzie, ma anche enti locali, città e soggetti espressi da quei territori) e di politica ed economia: la Fiat e la sua delocalizzazione in Serbia con la storica fabbrica Zastava, la crisi economica in Grecia che ha minacciato
l'euro, le espulsioni dei Rom dalla Francia che mettono in discussione i diritti umani, l'instabilità del Caucaso tormentato dal fondamentalismo islamico.

Dai diritti umani alla gastronomia. "In questo variegato panorama mi preme sottolineare la presenza delle comunità immigrate - dichiara Luisa Chiodi, direttore scientifico dell'Osservatorio: - non a caso oggi i commenti ai nostri articoli arrivano prevalentemente dalla cosiddetta diaspora. Gli est europei costituiscono la metà degli immigrati nel nostro paese e hanno un urgente bisogno di farsi conoscere ed apprezzare dalla società in cui vivono. Scriviamo di politica ed economia, ma anche letteratura, cinema, arte, fotografia, paesaggi, itinerari turistici, - sottolinea Chiodi. - Scriviamo sì di diritti umani, di ambiente, di elaborazione del passato, ma anche di come si cucina il pranzo di capodanno in Armenia e de i ritmi musicali più amati dai giovani bosniaci, di nuovo cinema rumeno, di dove va la letteratura albanese contemporanea. Tutto ciò favorisce l'integrazione dei migranti, perché dare profondità significa restituire dignità, stimolare comprensione per le difficoltà e apprezzamento per la grande ricchezza culturale che contraddistingue queste regioni".

Via dal giornalismo con l'elmetto. L'informazione è il banco di prova più cruciale per i paesi nati dalla dissoluzione della ex Jugoslavia e per quelli dell'intera regione: lontani dal "giornalismo con l'elmetto" tipico dell'informazione di guerra, dalla notizia al servizio della propaganda, dal controllo ferreo del regime di turno, oggi gli organi di stampa della regione possono definirsi liberi, sebbene l'economia e la politica continuino ad avere un'influenza decisiva su di loro. I giornalisti che indagano o che trattano argomenti "scomodi" non di rado ricevono minacce e intimidazioni, e in alcuni casi sono vittime di attentati mortali. Il recente rapporto dell'Ue sui progressi dei singoli paesi dei Balcani occidentali poneva tra le priorità proprio il miglioramento delle condizioni di indipendenza della stampa locale.

La piattaforma multilingue. In questo ambito sono stati importanti gli interventi di cooperazione a sostegno della formazione dei nuovi giornalisti, della costituzione di radio indipendenti, dell'acquisizione e dell'utilizzo delle nuove tecnologie. Un esempio è la piattaforma multilingue Oneworld South-East Europe 2, costituita dieci anni fa con il sostegno di Unimondo e in collaborazione con il nascente Osservatorio Balcani. L'Osservatorio, che si è dato il compito fin dall'inizio di fare da cassa di risonanza per giornalisti e corrispondenti dell'area, è coinvolto in uno dei progetti più rilevanti realizzati finora tra Italia e Balcani.

I campi di attività. Il Programma di cooperazione decentrata SeeNet 3 II, promosso dalla Regione Toscana e co-finanziato dal Ministero Affari Esteri italiano, coinvolge 6 Regioni, la Provincia Autonoma di Trento, la società civile italiana e 47 autorità locali nel sud-est Europa. Osservatorio Balcani e Caucaso è partner per l'attività di informazione e approfondimento: un programma che prevede molti campi di attività, dai servizi sociali all'agricoltura, dalle piccole medie imprese al turismo sostenibile. Per passare dalla logica dell'emergenza a quella dello scambio, per favorire l'avvicinamento delle società e delle istituzioni balcaniche a quell'Europa cui tutti apparteniamo.

fonte: La Repubblica


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gennaio 03, 2011

Dall'Asia ecco Denisovan, il cugino del Neanderthal.

Il cugino che non t'aspetti bussa alla vigilia di Natale si presenta: mi chiamo Denisovan, vengo dall'Asia e l'unica cosa che posso mostrarvi di me, scusate, è solo un piccolo dente... È una storia meravigliosa quella raccontata dagli scienziati del Max Planck Institute. L'uomo aveva un parente stretto e l'ha ignorato per tutti questi di anni. E per di più la scoperta si deve ai miracoli del Dna.


Solo grazie alla sequenza del genoma gli scienziati sono riusciti a ricostruire il nostro parente dai resti più piccoli che antropologo mai ricordi: l'ossicino di un dito e un dente del giudizio.


La saga dei Denisovan si intreccia a quella dei Neanderthal e riapre quindi gli interrogativi sulla nostra complicatissima famiglia. Per decenni gli scienziati ci avevano rassicurato sulla nostra discendenza, iscrivendoci al ceppo dell'Homo Sapiens e sostenendo che noi moderni non avevamo nulla da spartire con quel più tozzo individuo misteriosamente estinto senza lasciare apparentemente tracce.


Ma proprio le ricerche di Svante Paabo, il genetista del Max Planck che oggi tiene a battesimo i Denisovan, hanno costretto a rivedere la nostra carta d'identità. Realizzando il primo genoma completo del Neanderthal, il professore ha scoperto che questi ominidi, che hanno lasciato numerosissime tracce fossili, dall'Europa alla Russia, risalenti fino a 240mila anni fa, dividono il 2.5 per cento del loro Dna con i moderni europei e i moderni asiatici: ma non hanno invece nulla a che fare con i moderni africani. Da qui la conclusione: prima di scomparire (soggiogati? estinti?) i Neanderthal si mischiarono con l'Homo sapiens quando anche i nostri progenitori lasciarono l'Africa per l'Europa, circa 60mila anni fa.


Ei Denisovan? Tutto nasce dal ritrovamento dei fossili in una cava della Siberia chiamata appunto Denisova. Un osso di un dito e un dente, vecchi almeno 50mila anni. E appartenenti a chi? Ancora una volta è stato il Dnaa dare una risposta. «Ma che shock» racconta oggi Paabo al New York Times «scoprire che il frammento non apparteneva ai tipi finora conosciuti». Non all'uomo di Neanderthal. Non a quello di Cro-Magnon, come è anche detto l'Homo sapiens che fu ritrovato proprio in quella grotta della Francia. E neppure all'Homo floriesensis, dall'Isola di Flores, Indonesia, cioè il piccoletto che gli studiosi hanno ribattezzato «Hobbit», e che era finora l'ultimo parente conosciuto di questa nostra famiglia che si scopre sempre più allargata.


La sentenza è arrivata dagli studiosi dell'Harvard Medical School: si tratta di una nuova specie ominide, che probabilmente si è staccata dal comune progenitore dei Neanderthal, in Africa, più o meno 400mila anni fa. Una specie fra l'altro particolarmente intraprendente, che deve averne fatta di strada. Gli studiosi hanno provato infatti a ripetere l'operazione Neanderthal per scoprire a che tipo umano i Denisovan assomigliavano di più. Li hanno così confrontati con il Dna dei moderni abitanti di Sudafrica, Nigeria, Cina, Francia e Papua Nuova Guinea. Per scoprire che le tracce comuni si riscontravano, pensate un po', proprio con le popolazioni melanesiane. Possibile? Ci sono volute ulteriori analisi incrociate, con altre popolazioni, per accertare che sì, dalla Siberia i nostri cari Denisovan si erano spostati fino agli antipodi. Ma la loro migrazione non è certo l'unico mistero ancora da sciogliere. Gli studiosi sperano ora di ritrovare qualche altro frammento per riuscire quantomeno a ipotizzare l'aspetto dei nuovi cugini. Che aspetto avevano? Assomigliavano più a noi, si fa per dire, o ai più burberi neandertheliani? Per adesso dobbiamo accontentarci di quel frammento di dito e di quel dente.


Che per lo meno fa ben sperare: è del giudizio.


fonte: La Repubblica


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Gli italiani li fanno meglio: Giotto, Tiziano e Leonardo, i quadri che educano il mondo.

Con Peter Brown e Glen Bowersock, Paul Veyne è oggi uno degli storici più penetranti dell'antichità grecoromana. E ciò dovrebbe bastare per includerlo nel Patrimonio culturale di Francia. Ma si dà il caso che in un'epoca in cui il francese letterario è tuttora largamente intriso di mistificanti pedanterie, la scrittura di questo grande studioso - caso raro nella nostra prosa - incanta l'intelligenza di primo acchito, senza mai cercare di intimidirla.


Veyne ci ha insegnato a leggere, da Catullo a Properzio, l'elegia romana. In una summa memorabile, ci ha illustrato quello che per cinque secoli è stato l'Impero romano, capolavoro di politica e di cultura senza rivali, che per rinascere dopo il suo smantellamento in Occidente ha impiegato ben otto secoli (...). Ma solo di rado si è occupato dell'arte antica, e mai finora di quella cristiana. Nel suo ultimo libro, Il mio museo immaginario o i capolavori della pittura italiana, Veyne ci ha sorpreso, gratificandoci - e vendicandoci - su un territorio del tutto inatteso. Ci ha vendicati dell'interminabile dissertazione di Malraux sull'"Arte occidentale", divenuta il Corano estetico del politicamente corretto per il giornalismo e gli enti culturali, in Francia come altrove. Il Museo immaginario di André Malraux divide la storia dell'arte in tre fasi: 1."Il Sacro"; 2."L'Irreale"; 3."L'atemporale".


Eccellente, fondamentale il Sacro, da Lascaux a Bisanzio! Sublime, rivoluzionario l'Atemporale, da Manet a Rothko! Mentre tutto il periodo intermedio - tranne Rembradt e Goya - non sarebbe altro che un deplorevole tunnel: imitazione delle apparenze, trompe l'oeil, adulazione, accademia! Disastrosi errori spacciati per meraviglie nel corso di una parentesi di cinque secoli, da Giotto a Tiepolo, venuti dall'Italia a ingombrare i nostri musei! Chi mai osa metterlo in dubbio? Veyne respinge questa visione magniloquente e sciatta, puntando direttamente al periodo intermedio snobbato da Malraux, senza ingolfarsi negli altri due; e parla con fervore delle diverse "epidemie del genio italiano" alle quali, per emulazione, l'Europa delle arti deve quanto di meglio ha saputo produrre fino al XIX secolo, e persino oltre. Cosa sarebbe Ribera senza il Caravaggio, Rubens senza il Tiziano, lo stesso Velasquez senza Tiziano e Rubens?


Cosa sarebbe la pittura francese senza l'Accademia di Francia a Roma, dove Poussin, David e Ingres giunsero alla loro maturazione? Veyne non nega l'originalità quasi miracolosa dei miniaturisti e dei pittori fiamminghi del XV secolo, ma la fa intravedere attraverso l'arte di Antonello da Messina, geniale mediatore tra Bruges e Venezia. Tocqueville vedeva nella genericità delle idee una terribile tara dello spirito democratico. Paul Veyne è irritato dalla genericità di quelle di André Malraux, trasformato in ventriloquo della vulgata modernista, e quindi in profeta dell'arte postmodernao "contemporanea".E ha il coraggio di non vergognarsi dell'arte italiana, di non voltare le spalle alla felicità così generosamente profusa, in forme diverse, dai suoi pittori e dai loro capolavori più spesso citati. Il suo è il gusto di Stendhal, di Taine, di Proust, ma anche quello di due storici dell'arte volentieri citati da Veyne (che non solo ha visto ma ha anche letto moltissimo): Roberto Longhi e André Chastel. Perché privarsi della bellezza soltanto perché è stata tanto ammirata, o perché rappresenta il reale in una luce che non ispira disgusto? Tanto varrebbe imporsi di essere masochisti o feticisti, per conformismo o per posa.


Paul Veyne non se lo impone. La sua personale Tribuna degli Uffizi è anche una rivalsa contro i burocrati della cultura, che accettano di conservare i capolavori dell'arte classica solo per confinarli in un ruolo di spalla, mettendo in evidenza l'accozzaglia del "contemporaneo".


Oggi che l'educazione della sensibilità e dello sguardo è nelle mani dei precettori del "sempre più brutale", nella comunicazione come nei videogiochi, non è invece opportuno, come ha fatto Veyne, liberare l'appetito per tutto ciò che è grande, nobile, delicato, squisito, incantevole, misterioso, sorridente - in breve, per tutti i sapori civilizzati e civilizzanti di cui i pittori italiani hanno sparso la cornucopia, e continuano a spargerla sul mondo? Troppe volte tra noi l'esultanza è stata respinta o raggirata. Al Louvre guardiamo con condiscendenza la ressa dei visitatori giapponesi davanti alla Gioconda, la devozione con cui salutano il sorriso di illuminata che aleggia sulle sue labbra. Non hanno nulla da invidiare all'estasi prefabbricata davanti agli scarabocchi pseudo-rimbaldiani del fascinoso Basquiat. I geni inventano luoghi comuni inesauribili; mentre le mezze tacche si caratterizzano per l'accanimento con cui cercano di prenderne le distanze, per poi precipitarsi in massa a sguazzare nei più vieti stereotipi.


Paul Veyne presenta la sua bella raccolta di riproduzioni con commenti brevie succulenti, in cui regnano il buon senso, che è la salute del gusto, e la naturalezza di un'epoca alta, di cui Pascal ha fornito la chiave nella sua Art de conférer: «Nulla è più comune delle cose buone. Si tratta solo di discernerle, ed è certo che esse sono affatto naturali e conosciute da tutti. Ma non si sa distinguerle. E ciò è universale. Non è nelle cose straordinarie e bizzarre di qualsivoglia genere che si trova l'eccellenza. Chi si eleva per raggiungerla se ne allontana. Il più delle volte ciò che si deve fare è abbassarsi. I libri migliori sono quelli di cui il lettore crede che avrebbe potuto scriverli. La natura, che sola è buona, è del tutto familiare e comune». Chiaramente Paul Veyne, grande lettore della Poetica di Aristotele e di quella di Orazio, vede la rinascita della pittura e della scultura nell'Italia del XII secolo come un ricongiungimento con le immagini dell'Antichità, con i diversi effetti di "dolcezza" e "utilità" che da esse dovevano derivare. Sia che illustrino la storia e i miti cristiani come in Giotto, Masaccio, Carpaccio (e benché ammetta di non riuscire a "mandar giù" il cristianesimo, Veyne le racconta qui con la scienza di un catechista eccellente), sia che riprendanoi mitiei racconti dell'antichità (da Pollaiuolo a Tiepolo), i soggetti sono per l'artista un'occasione per far assaporare quanto vi è di più degno, di più dolce, di più grave, di più incantevole nella vita e negli atteggiamenti umani.


La somiglianza di queste immagini artistiche con il reale, di cui lo spettatore ha l'esperienza diretta, non è altro che un'esca per attirarlo e fargli percepire la differenza tra quanto poveramente ha potuto vedere nell'ordinario, e le prelibatezze nascoste che l'arte sa rivelare. Per ciascuno di questi quadri, riprodotti con tanta frequenza che tendiamo a crederli ormai svuotati di emozione e di senso, Veyne ripercorre il camminoa ritroso, diverso caso per caso, risalendo dalla rappresentazione al mondo reale, alla sua riscoperta sensibile e poetica grazie alla rivelazione suscitata dal pittore sul suo schermo di luce o di chiaroscuro.


Pur senza averne l'intenzione, Paul Veyne, storico dell'Impero, ci convince che è stata proprio la vista dei bassorilievi e delle statue antiche a ridestare negli artisti cristiani dell'Italia dantesca l'incantamento davanti alla dignità umana, all'autorità morale e allo splendore fisico dei volti e dei corpi. E non è lontano dal persuaderci, altrettanto involontariamente, che il cattolicesimo italiano con i suoi artisti, una volta ritrovato e rianimato il meraviglioso potere educativo delle immagini somiglianti, non si è precluso le corde dell'antica lira. I pittori italiani che riscopriamo graziea questo ammirevole "livre d'heures" hanno inventato, alla luce dell'Incarnazione e della Risurrezione, solfeggi e melodie capaci di rinnovare profondamente le nostra percezione del palcoscenico umano. Le loro immagini ispirate hanno inseguito, scavato, effuso la redenzione dell'uomo e del mondo inaugurata dal sorgere del Cristo nel tempo della Storia. Nel Museo immaginario di un esegeta onesto e penetrante come Paul Veyne, davanti al susseguirsi di capolavori così diversi tra loro, benché appartenenti alla stessa famiglia spirituale, vediamo la storia della pittura italiana come l'equivalente visivo della Passione secondo San Matteo di Johann Sebastian Bach: una Passione in cui compaiono il Doge Loredan di Giovanni Bellini, la Maddalena del Tiziano, e Santa Caterina da Siena del Tiepolo, ai Gesuati.


fonte: Repubblica


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La nuova vita di Mr. WikiLeaks
Una settimana nella campagna inglese ha fatto bene a Julian Assange. Quando scende dalla macchina che, come ogni giorno, lo accompagna a firmare il registro dei detenuti nel commissariato di Beccles, nel cuore del Suffolk, dove tutto è lento e tranquillo e le giornate sanno di pudding natalizio e tradizione, il fondatore di WikiLeaks è rilassato e tranquillo. Piumino verde oliva, maglione bianco e jeans, si muove con disinvoltura, nonostante il braccialetto elettronico alla caviglia. «Buona sera. Grazie per avermi aspettato qui sotto la neve. È stata coraggiosa», sorride stringendo la mano. Poi si incammina veloce verso l'ingresso: mancano 20 minuti alle cinque, orario di chiusura della stazione di polizia, e se non si presenterà ai poliziotti entro quell'ora sarà costretto a rinunciare alla campagna e a tornare in prigione, dove ha già passato nove giorni, accusato di stupro da due donne svedesi.

La nuova vita dell'uomo che da settimane catalizza l'attenzione dell'opinione pubblica mondiale si svolge in questo angolo innevato dell'Inghilterra, famoso per la cacciae la pesca. Il Suffolk ha dato ospitalità ad Assange suo malgrado, solo perché il reporter Vaughan Smith ha messo a disposizione per gli arresti domiciliari la grande casa di campagna che ha da queste parti: ma dopo i primi giorni di caos ha chiuso su di lui una cortina di indifferenza. Qui la vita ha il ritmo lento delle zone di campagna e ad occupare le prime pagine dei giornali non ci sono le rivelazioni di WikiLeaks ma le fiere natalizie: l'unica trasgressione possibile dopo le cinque, quando tutto chiude, è una bevuta al pub. Un grosso cambiamento per un uomo che negli ultimi tre anni non ha avuto residenza fissa, muovendosi da una parte all'altra con uno zaino e un manipolo di fedelissimi e ha tenendo in scacco i servizi segreti di mezzo mondo.


(segue dalla copertina) Fuori dal commissariato passano pochi minuti prima che Assange ricompaia. «Il tempo di una firma e di una chiacchierata, è una persona gentile e tranquilla», racconterà dopo il poliziotto. Incollato al telefonino e atteso con impazienza da una giovane assistente che sfida la neve in minigonna e ballerine, l'australiano si concede solo per qualche battuta: «Sto bene, grazie. Lavoro. Ma mi riposo, anche. Buon Natale, davvero». Poi via, nella macchina scura dove la ragazza ha già acceso il motore. Lo attendono 20 minuti di auto fino a Ellingham House, la villa dove trascorre quelli che chiama «i miei arresti domiciliari ad alta tecnologia». È dall'interno di questa grande tenuta, che fino a pochi giorni fa si poteva affittare via Internet per matrimoni e battute di caccia ma ora è scomparsa dalla Rete, che il fondatore di WikiLeaks combatte la sua ultima battaglia. Chi la frequenta racconta delle sue lunghe passeggiate ma anche di riunioni infinite che vanno avanti anche ora che alcuni dei più stretti collaboratori sono partiti per Natale.


«Abbiamo pubblicato soltanto una piccola parte del materiale che abbiamo. Andremo avanti.


Non abbiamo altra scelta: pubblicare o morire», racconta a Paris Match intorno al camino. E poi: «Sono diventato un obiettivo perché certe organizzazioni potenti non possono perdere la faccia».


Pochi sono i visitatori ammessi dentro la villa. Chi non è espressamente invitato non è ben visto: «È una nota zona di caccia. C'è gente che spara. Non vorremmo che prendessero un curioso per un uccello da abbattere», dice ironico uno dei collaboratori. Avvertimento inutile: i grandi cancelli che delimitano la proprietà sono lontani dalla strada più di un chilometro. Un lago ghiacciato ed ettari di terreno li separano a loro volta dalla villa: impossibile arrivare senza essere notati. Forse per questo, come spiega il funzionario di polizia di Beccles «non c'è bisogno di protezione. Non abbiamo aumentato i turni, né richiamato gli agenti dalle ferie. Per noi va tutto bene».


Nonostante le sempre più numerose minacce di morte che Assange dice di continuare a ricevere, la maggiore occupazione della polizia qui sono le multe agli automobilisti in doppia fila. Probabilmente è la prima volta che i poliziotti hannoa che fare con un detenuto con il braccialetto elettronico. Di certo mai si erano trovati di fronte a qualcuno che usa il Suffolk per lanciare messaggi planetari: «Abbiamo scoperto in queste settimane che il sistema americano si avvicina a quello sovietico: che Visa, Mastercard, Paypal e Bank of America sono strumenti di controllo al servizio della Casa Bianca», ha detto ieri Assange. Di fronte a queste parole a Beccles e nella vicina Bungay la gente reagisce con indifferenza: «Ho capito che stava succedendo qualcosa quando ho visto la tv», dice Sylvia, abitante di Beccles. Il suo è un punto di vista condiviso: per la maggior parte della gente qui, Assange è praticamente uno sconosciuto. Delle sue battaglie non sono arrivati che echi lontani. Nulla a parte un cartello nella neve che chiede libertà per Bradley Manning, il soldato Usa accusato di essere la fonte delle rivelazioni del sito, segnala la sua presenza. Una realtà quasi paradossale per l'uomo che più di ogni altro fa parlare di sé il mondo da settimane.


«Ho visto la polizia e gli elicotteri quando è arrivato, ma lui no.


Neanche sapevo chi fosse. Noi amiamo la tranquillità, questo caos non ci piace», racconta Rob, falegname, la cui segheria è a pochi metri dalla villa. «Un po' di animazione è divertente. Ho venduto qualche paio di guanti ai giornalisti infreddoliti - sorride la signora Julie Bright, titolare di "Crossway", il negozio di articoli di caccia e cibo di animali che sta di fronte alla casa - ma ora sono andati via. E nessuno di noi andrebbe a guardare oltre ai muri per vedere cosa fa quell'uomo.


Non ci interessa».


Oltre i muri «quell'uomo» si prepara a combattere un'altra puntata della battaglia per evitare l'estradizione in Svezia e, in ultima istanza, negli Stati Uniti dove, dice «temo sempre di più di finire». Al Guardian dice che se ci fosse abbastanza pressione dall'opinione pubblica sarebbe «politicamente impossibile» per la Gran Bretagna estradarlo negli Stati Uniti. «Lì - ha aggiunto - ci sarebbe una grossa possibilità che io finisca ucciso, come ha fatto Jack Ruby»: il riferimento è all'uomo che uccise Lee Harvey Oswald, accusato di aver a sua volta assassinato il presidente Kennedy. Al Times ha raccontato delle due condizioni di detenzione: «Ho potuto chiamare solo quattro persone, oltre ai miei avvocati».


Ma anche della solidarietà di una guardia carceraria «Mi ha dato un biglietto. C'era scritto: in questo mondo ho solo due eroi: te e Martin Luther King».


Rob e Julie, se uno glielo riferisce, scuotono la testa, come la maggior parte degli abitanti di Beccles interrogati per questo articolo: «Gli auguriamo un Buon Natale: si goda il pudding, gli amici e la famiglia. La fama viene e va». Quella di Assange in questo angolo di Inghilterra è già svanita: ma nel resto del mondo, c'è da giurarci, durerà ancora.


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