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giugno 17, 2013

Turchia: baluardo strategico o potenziale minaccia? Come valutare questo “nuovo corso” rivolto ad oriente.

turkeyLa telefonata di scuse fatta dal Premier israeliano Benjamin Netanyahu all’omologo turco Recep Tayyip Erdoğan, con Barack Obama a far da gran cerimoniere, è stata da molti commentatori salutata come uno dei più importanti successi in politica estera ottenuti dagli Stati Uniti negli ultimi anni: è difatti innegabile che tanto gli Stati Uniti quanto l’Unione Europea abbiano più che mai bisogno che i rapporti diplomatici tra quelle che in definitiva sono le uniche due democrazie, seppur imperfette, del Medio Oriente siano cordiali.

Ma soprattutto sarà interessante monitorare, nei mesi a venire, se questo “cedimento” israeliano, che di fatto premia la linea dura seguita da Ankara in questi ultimi tre anni, possa galvanizzare il “musulmano moderato” Erdoğan, il quale non ha mai mancato di mettersi in luce per la sua intraprendenza diplomatica e per la ruvidezza di alcune delle sue prese di posizione; l’avvenuto riavvicinamento con Israele non deve infatti far dimenticare come motivi di polemica e di contrasto si siano avuti in tempi recenti anche con la Francia (al momento dell’approvazione della legge che trasforma in reato la negazione del genocidio del popolo armeno) nonché con l’Unione Europea tout court in occasione del turno di presidenza cipriota (semestre luglio – dicembre 2012). Tutte queste frizioni messe insieme hanno implicato, complice anche la crisi finanziaria, monetaria ed economica dell’eurozona che ha evidentemente fatto venir meno l’appeal di Bruxelles, un sensibile rallentamento dei negoziati per l’ammissione della Turchia stessa all’Unione ed, al contrario, un rinnovato slancio della penetrazione economica del Paese anatolico verso il Medio Oriente (Iraq in primis) e l’Asia Centrale turcofona .

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Come valutare questo “nuovo corso” rivolto ad oriente impresso dal gruppo dirigente turco? Quali le implicazioni politiche, economiche e soprattutto di sicurezza per l’Occidente tutto e per l’Unione Europea in particolar modo? Per rispondere a queste domande è opportuno fare un passo indietro e ricordare le motivazioni che indussero, oltre sessant’anni fa, ad accogliere l’“asiatica” Turchia in seno al principale strumento messo a punto per garantire la sicurezza collettiva dell’Occidente: la NATO.

Risale infatti al 1952 l’ingresso di Ankara (assieme ad Atene) nell’Alleanza Atlantica: si era in piena Guerra Fredda e nonostante il concetto strategico di allora, fondandosi sulla capacità di condurre bombardamenti strategici con qualsiasi tipo di armamenti (leggasi nucleari), lasciasse un ruolo praticamente residuale alle considerazioni tattiche/di teatro, già si avvertiva l’esigenza di rafforzare il fianco sud, sensibilmente esposto alle Forze del Patto di Varsavia. Tale obiettivo, nelle teorie dell’epoca, era ritenuto difficilmente conseguibile se non si proteggeva l’intero Medio Oriente e con esso il Mediterraneo orientale e le linee di comunicazione aeree e navali per esso transitanti. Tale risultato era a sua volta ritenuto raggiungibile solo ammettendo la Grecia e la Turchia ed integrandole a pieno titolo nella struttura militare dell’Alleanza: in particolare la posizione geografica della Turchia permetteva di “tallonare” da vicino l’Unione Sovietica, con la quale condivideva oltre 500 kilometri di confine sul Causaso, contrastandola inoltre nel Mar Nero ed impedendole, grazie al controllo del Dardanelli, il libero accesso al Mediterraneo.

Le successive evoluzioni nel concetto strategico della NATO e delle relative dottrine d’impiego, dalla massive retaliation alla risposta flessibile fino alla “provocatoria” dottrina dell’AirLand Battle, non hanno mai fatto venir meno l’importanza di Ankara. Non a caso tanto i “nuovi” concetti strategici del 1991, del 1999 e del 2010 (i quali hanno progressivamente accettato l’idea che l’Alleanza potesse svolgere missioni fuori teatro non strettamente difensive), quanto le concrete “crisi” succedutesi negli anni (I Guerra del Golfo e successiva imposizione di una no-fly zone sui cieli dell’Iraq negli anni Novanta, operazioni in Afghanistan all’interno della più amplia “lotta al terrorismo” nel primo decennio del XXI secolo, l’odierna rivolta anti-Assad in Siria), hanno ribadito l’importanza strategica della Turchia e delle sue basi (Incirlick su tutte).

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Né è seriamente ipotizzabile pensare che le cose possano cambiare nel prossimo futuro: il Medio Oriente continua ad essere, nonostante l’innegabile ascesa di altre aree (Estremo Oriente, n.d.r.), centrale per gli equilibri strategici ed economici del pianeta; inoltre quest’area è perennemente attraversata da momenti di crisi e venti di guerra che i Paesi occidentali non possono permettersi di lasciar degenerare.

In questo contesto la Turchia, in virtù della sua peculiare conformazione geografica, si conferma Paese strategico ed indispensabile retrovia logistico, cerniera ideale tra spazio euromediterraneo e profondità asiatiche nonché hub naturale per le risorse energetiche che, dal Mar Caspio e dal Golfo Arabico, scorrono verso l’industrializzata Europa all’interno di kilometriche pipeline.

Per il Vecchio Continente, si badi, la Turchia non si limiterebbe ad essere garante regionale dei suoi canali di approvvigionamento energetico, ma continuerebbe a ricoprire un ruolo importante nella difesa militare strictu sensu: oltre a confinare direttamente con i turbolenti Staterelli caucasici, fecondo terreno di proselitismo per i professionisti del jihad, Ankara “vanta” pure un lungo confine con l’Iran. Il recente schieramento di batterie di missili antimissile Patriot PAC 3 in diverse città della Turchia deve essere interpretato, oltre che come doverosa cautela di fronte al deteriorarsi della situazione nella vicina Siria, anche come chiaro messaggio a Teheran ed ai suoi programmi nucleari e missilistici. Ed in effetti, nell’ipotesi di un redde rationem con il regime degli ayatollah, la posizione della Turchia, che si interpone “fisicamente” con la sua massa tra Iran ed Europa diviene, nell’ottica di una difesa antimissile, a dir poco fondamentale.

Non meno importanti sono i legami economici: secondo l’Agenzia turca per la promozione ed il supporto degli investimenti, la Turchia nel 2012 si collocava al tredicesimo posto nella speciale classifica mondiale degli Stati destinatari di investimenti diretti esteri (IDE), con l’UE a guidare, con notevole distacco davanti a Stati Uniti e Paesi del Golfo, la nutrita pattuglia degli investitori. E ciò nonostante il flusso complessivo nel 2011 sia assai inferiore rispetto al picco raggiunto nel 2006.

La crisi economico–finanziaria iniziata nel 2007, andando ad intaccare i capitali disponibili, ha infatti portato ad un calo complessivo degli investimenti esteri con ovvie ripercussioni sull’economia turca la quale, nonostante un rallentamento, ha comunque retto decisamente meglio rispetto ai competitor: l’economia, seppur con tassi ridotti, ha continuato a crescere e i dati più recenti (che indicano una ripresa dei consumi interni, l’espansione del credito e la crescita dell’export) inducono ad un cauto ottimismo [7]. Il punto dolente (per l’Europa) è che tale crescita è stata possibile, come ricordato in nota 2, riorientando le esportazioni verso i vicini Stati mediorientali e centroasiatici: l’evenienza di un’economia turca integrata con le altre economie regionali se è in linea di principio da accogliere con favore, dal momento che essa dovrebbe assicurare maggior ricchezza e stabilità complessiva all’area, secondo la prospettiva europea va vista con un po’ di preoccupazione, venendo a mancare un importante mercato di sbocco (oltre 70 milioni di abitanti) con manodopera a basso costo (fattore sempre gradito dalle multinazionali) e notevoli potenzialità produttive. Soprattutto, c’è da temere 1) che l’affievolirsi del legame economico con l’UE (quantificato dalla diminuzione dell’interscambio), sia la premessa per l’allentamento di quello politico e di qui militare e 2) che ex contro la consapevolezza di essere la potenza economica regionale sia sfruttata dalle élite politiche turche per rivendicare un ruolo di guida politico–militare regionale che peraltro, considerando che l’esercito turco è il secondo della NATO in fatto di forze convenzionali, difficilmente faticherebbe a veder riconosciuto.

Né l’Unione Europa potrebbe far appello, per tentare di tener legata a sé la Turchia, ad affinità storico-culturali (al contrario molti Paesi della “nuova Europa” recentemente entrati sia nell’UE che nella NATO basano la loro identità nazionale proprio nelle secolari lotte contro il “turco invasore”), né tantomeno religiose (seppur laica sin dai tempi di Ataturk, la Turchia resta un Paese musulmano) ed ancor meno politiche. In quest’ultimo ambito, anzi, numerosi sono i dossier aperti in fatto di diritti civili (dalle condizioni della minoranza cristiana e di quella curda  alla libertà di espressione, con i giornalisti sempre più nel mirino) ma anche di conti non fatti con il proprio passato remoto (negazione del genocidio armeno, con la conseguente impossibilità di giungere a rapporti di buon vicinato con Yerevan) e recente (occupazione della parte orientale di Cipro, motivo di ulteriore dissidio con il vicino greco). Tutte questioni che, per la loro delicatezza, hanno notevolmente rallentato il processo di adesione all’Unione Europea fino allo stop de facto dovuto, come ricordato nell’apertura di questo articolo, essenzialmente alla negativa congiuntura economica.

Alla luce di quanto esposto, come rispondere alle domande poste in sede introduttiva? Per quanto riguarda la prima questione (come valutare il nuovo corso “orientale” imposto dal governo Erdoğan?), la risposta non può essere univoca: riprendendo un’argomentazione in parte già anticipata, la presenza di uno Stato di riferimento attorno al quale possa nascere un’area economica integrata potrebbe rappresentare il primo passo per un’unione oggi economica (come fu la CEE per l’Europa), un giorno chissà politica, che garantisca crescita, prosperità e stabilità all’intera area (meglio se con il contributo israeliano). D’altro canto non è da escludere che l’emergere della Turchia come potenza regionale (economica ergo politica e militare) possa turbare i più che precari equilibri regionali e condurre ad attriti con gli altri Stati con ambizioni egemoniche: se ieri era l’Iraq di Saddam Hussein, oggi è soprattutto l’Iran di Ahmadinejad. Attriti che, essendo la Turchia membro storico della NATO, non potrebbero che finire per riguardare tutti noi.

Con questo arriviamo alla seconda questione: quali potrebbero essere le implicazioni economiche, politiche e militari? Per quanto riguarda il primo aspetto è quasi banale far notare che se la Turchia va a fare affari in Medio Oriente e nell’Asia centrale e ne fa sempre meno con l’Occidente, siamo noi a rimettercene. D’altro canto è pienamente comprensibile che, alla luce dell’estenuante processo di adesione prima e delle gravi difficoltà economiche dell’UE e delle incerte sorti della moneta unica ora, ad Ankara guardino altrove.

La prima mossa deve dunque venire da Bruxelles e non può che essere nel contempo politica e, per quanto possibile, economica: allo stato attuale si potrebbe ipotizzare a nuovi modi per favorire in misura ancora maggiore la circolazione di merci, uomini e capitali ed alla contestuale offerta di una qualche ulteriore forma di “relazione privilegiata”. Solo così facendo sarà possibile tenere agganciata la Turchia e cercare di influenzarne le scelte, facendo sì che nel limite del possibile queste ultime non diventino fonte di problemi.

A suggerire il mantenimento di stretti e franchi legami sono anche considerazioni di carattere strettamente militare: per i motivi esposti in modo diffuso nel corso dell’intero articolo appare infatti chiaro che per l’UE, vista qui come (debole) pilastro europeo dell’Alleanza Atlantica, la Turchia rappresenta un irrinunciabile bastione strategico, un alleato del quale non si può davvero fare a meno! Il riconoscimento di questa “indispensabilità” implica accettare anche il rovescio della medaglia, vale a dire la tutt’altro che remota possibilità di essere direttamente chiamati in causa in questioni che riguardano aree lontane ed apparentemente fuori dai nostri interessi.

Un rischio calcolato che è bene correre perché, al contrario, qualora i rapporti tra Turchia ed Unione Europea dovessero allentarsi, non è nemmeno da escludere che Ankara, approfittando del vuoto geopolitico improvvidamente lasciato da Bruxelles in gran parte dei Balcani e sfruttando il piede a terra in Tracia ed a Cipro, possa decidere di muoversi lungo linee di espansione già percorse cinque secoli fa. Il che sarebbe niente meno che deleterio.

 Autore: Simone Vettore

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