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agosto 26, 2009

Una storia ordinaria di mancata accoglienza

immigrazione-thumb-thumb Vivono in un edificio abbandonato di Torino 350 richiedenti asilo in fuga da Somalia, Sudan ed Etiopia. Dallo stato italiano hanno ricevuto un permesso umanitario e niente altro.


Ogni città ha la sua fetta d'Africa. L'Africa clan­destina di Cerignola, in Puglia, disseminata nelle mas­serie di campagna, che d'estate si popolano di braccia per la raccolta dell'ortofrutta. L'Africa di Rosarno, in Calabria, che vive tra topi e caporali, e sulle spal­le si carica il peso degli agru­meti. L'Africa milanese di Linate, di Scalo Romana, evidente contraddizione nella metropoli della finanza e della moda. Da qualche mese anche Torino ha una sua Africa, alla clinica San Paolo. Secondo alcuni è quella più fortunata, perché tra le molte ha trovato una siste­mazione decorosa. Raccontarla è difficile, perché come tutte le altre è un mosaico di storie, ma, come molte altre, è un'Africa legale.

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Sono tanti - secondo un censimento della Questura 350, ma gli abitanti sanno che sono molti di più, forse addirittura 600. Sono i profughi di Somalia, Etiopia, Sudan. Uomini, don­ne e bambini che si dividono i quattro piani di un ex ospedale privato in corso Peschiera, nel cuore di Torino, dove si sono insediati alla fine dello scorso anno, dopo mesi di girovagare. Un destino comune a molti mi­granti che raggiungono il nostro paese in fuga da guerra e po­vertà, ottengono un permesso e piombano in un limbo surreale. La storia infinita dei richiedenti asilo rappresenta il paradosso di una legislazione che accorda loro un diritto ma che intorno a questo diritto crea il vuoto.


Legali, regolari, protetti - solo formalmente -a tutti gli effetti, dal momento in cui hanno fatto il fingerprint (le impronte digi­tali prese dalle Questure delle località in cui arrivano, spesso Lampedusa o Crotone), comin­cia la loro schiavitù di uomini liberi. Liberi dì muoversi, sce­gliere una destinazione, che molto spesso è il Nord. Liberi di partire, senza un soldo in tasca.

Una rete solidale diffusa che colma l'assenza delle istituzioni.
II pomeriggio del 16 ottobre 2008 i ragazzi africani occu­pano l'ex clinica San Paolo. Si sistemano nei locali abbando­nati, nelle vecchie camere di degenza, dove sono abbandonate alcune apparecchiature sanitarie. All'inizio la struttura sembrava un edificio sventra­to da un bombardamento, con macerie e squarci di intonaco dappertutto, porte sfondate, rifiuti. Qualche materasso spor­co, divani, coperte sfibrate dal tempo.

Ogni camera è diventata rifugio per tre, quattro persone. «Meglio così che per strada» commentano i ragazzi. Sulle porte hanno scritto i loro nomi, «così tutti sanno che le stanze sono occupate»: Mohammed, Yusuf, Ahmed. Da parte delle istituzioni molte parole ma pochi fatti (l'offerta di alcuni letti e il passaggio dal banco alimentare), mentre un'efficiente rete di solidarietà, formata da associazioni - tra le quali il gruppo di Emergency Torino - centri sociali e singo­li, si è attivata quasi da subito, apportando alla struttura al­cune migliorie e offrendo loro perlomeno una speranza di vita migliore. Ogni piano ha una cucina ancora funzionale. L'im­pianto idraulico ed elettrico è stato rifatto dai ragazzi dei cen­tri sociali (Gabrio e Askatasuna), in modo da garantire luce in ogni stanza e un punto acqua per ogni piano.

Ma i giovani dei centri sociali sono stati da sempre osteggiati dal Prefetto: «Mi rifiuto di trat­tare sulla gestione giuridica e sul futuro dei profughi con qua­lunque delegazione comprenda i rappresentanti dei circoli e dei centri sociali», aveva detto il rappresentante del governo, Paolo Padoin, durante i primi giorni del! emergenza. Da quel momento la questione si è in­garbugliata, perché nessuno sembrava avere i requisiti ne­cessari per sedersi al tavolo negoziale con le autorità. Alla fine, un censimento orga­nizzato dallo stesso prefetto ha consentito di verificare che i re­sidenti abusivi della San Paolo sono tutti «richiedenti asilo», e le acque si sono relativamente calmate. L'ostracismo del Pre­fetto è apparso a molti miope e insensato, ingabbiato in un for­malismo legalitario di fronte a un gruppo di persone che hanno gestito l'emergenza e l'occupa­zione, offerto da dormire e da mangiare. I giovani dei centri sociali sono così diventati veri e propri mediatori culturali che si sono sostituiti all'inerzia o all'assenza di istituzioni e or­ganismi che avrebbero dovuto garantire a quei profughi tutte le garanzie stabilite dalle Con­venzioni di Ginevra.

Dall'Africa all'Italia, un peregrinare senza si­curezze né prospettive
«Quando me ne sono andata dalla Somalia - racconta Marian Bubakar - speravo di tro­vare una situazione migliore di quella che ho trovato. Cer­to, nel mio paese c'è la guer­ra, ma io qui non ho ancora la cittadinanza. Mia sorella, che sta in Inghilterra, l'ha ottenuta dopo cinque anni. Ho sempre lavorato, ma in nero, perché il programma di assistenza ita­liano ti tiene sei mesi e poi ti abbandona. E senza residenza o cittadinanza nessuno ti offre un lavoro, lo facevo la badante per le signore anziane. Quando morivano, dovevo ricominciare da capo a cercarmi un altro la­voro».


Ali Assan, somalo anche lui, parla italiano come molti con­nazionali (la Somalia conobbe la dominazione italiana dal 1905 al 1941): «Perché siamo qui? Perché fuggiamo dalla guerra. Abbiamo attraversato il deserto, ci siamo imbarcati in Libia e abbiamo speso duemila dollari per venire. Cosa abbia­mo trovato? Personalmente ho girato quattro città, Ragusa, Fi­renze, Milano e Torino, ma non ho mai dormito su un vero letto. Ho tutti i documenti a posto: è normale vivere così?». In un documento presentato alle autorità cittadine al momento dell'occupazione, gli immigrati della San Paolo rivendicavano il diritto ad avere almeno un po­sto in cui poter costruire la loro casa.

Nel ringraziare la rete di solidarietà che li ha aiutati, gli immigrati spiegavano che «ci sono cose, come per esempio il riscaldamento, dove la soli­darietà dei singoli (siano per­sone o gruppi di associazioni) non può arrivare. Qui entrano in gioco le responsabilità delle istituzioni, dalle più vicine alle più lontane. La nostra volontà è quella di avere una casa; per poter vivere dignitosamente, cercare un lavoro e accedere a servizi che ci spettano di diritto chiediamo una soluzione reale per poter avere la residenza».

Un riconoscimento solo formale dei diritti fondamentali
II riconoscimento dello status di rifugiato è regolamentato dalla legge n. 39 del 1990. Chi ha ottenuto il riconoscimen­to ha diritto a contributi per la prima accoglienza: sostenta­mento, salute e cure mediche, sostegno allo studio, integra­zione dell'attività lavorativa. Il contributo economico di 27,89 euro al giorno viene ero­gato a chi ne fa richiesta (può presentare domanda chi non ha potuto essere accolto nei centri finanziati dal fondo nazionale, cioè i centri governativi) e a ogni componente del nucleo fa­migliare per un massimo di 35 giorni.


Il contributo viene suddiviso in due rate: la prima di 557,80 euro a persona, per 20 giorni; la seconda di 418,35 euro per i rimanenti 15 giorni. Nella maggior parte dei casi, le persone ospitate al San Paolo hanno un permesso umanitario della durata di tre anni. Questo permesso consente al titolare la permanenza sul ter­ritorio italiano e l'inserimento nei sistemi di protezione (Sprar) che forniscono - o dovrebbero fornire - accoglienza, scolariz­zazione e inserimento nei per­corsi di lavoro per sei mesi. Per chi segue questo itinerario è prevista anche la concessione della residenza.


Il punto critico di questo pro­gramma è che i posti disponibi­li non sono sufficienti a coprire tutte le richieste.


Respingimenti e leggi re­strittive: nessuna tutela dei diritti dei richiedenti asilo.
Lo scorso anno il ministro dell'Interno Maroni dichiarò che il fenomeno dei richiedenti asilo celava un ingresso di irregolari, in un paese già sotto accusa da parte dell'Unione Europea per i respingimenti forzati. Fu subito smentito da Italo Siena, respon­sabile del Naga Hard\ Milano, associazione che si occupa pro­prio della tutela per i richieden­ti asilo: «Si tratta di una falsità: ogni anno almeno l'80 per cento di coloro che in Italia ne fanno domanda ottiene una protezio­ne internazionale. Le richieste annuali in Italia sono circa 14 mila, almeno il 10 per cento dei richiedenti ottiene subito asilo politico, mentre a un altro 40 per cento viene accordata dal­la commissione competente la protezione di tipo umanitario o sussidiario. Se a questi ag­giungiamo anche quanti hanno fatto ricorso dopo il rifiuto della commissione, arriviamo all'80 per cento di domande accet­tate». Anche Amnesty Interna­tional, nel suo Rapporto 2009, non lesina critiche alla politica dell'Italia nei confronti dei mi­granti: «I richiedenti asilo sono sottoposti nel nostro paese a una detenzione de facto, priva di basi legali certe e di control­lo giudiziario».


Aggiunge Claire Weise, Presi­dente della sezione italiana di Amnesty. «La politica italiana dell'immigrazione e i respingi­menti dei rifugiati che arriva­no con le barche in alto mare è espressione di disprezzo dei diritti umani e delle persone veramente disperate che qui cercano aiuto».


LUCA CALASSI Peace & Reporter



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