Vivono in un edificio abbandonato di Torino 350 richiedenti asilo in fuga da Somalia, Sudan ed Etiopia. Dallo stato italiano hanno ricevuto un permesso umanitario e niente altro.
Ogni città ha la sua fetta d'Africa. L'Africa clandestina di Cerignola, in Puglia, disseminata nelle masserie di campagna, che d'estate si popolano di braccia per la raccolta dell'ortofrutta. L'Africa di Rosarno, in Calabria, che vive tra topi e caporali, e sulle spalle si carica il peso degli agrumeti. L'Africa milanese di Linate, di Scalo Romana, evidente contraddizione nella metropoli della finanza e della moda. Da qualche mese anche Torino ha una sua Africa, alla clinica San Paolo. Secondo alcuni è quella più fortunata, perché tra le molte ha trovato una sistemazione decorosa. Raccontarla è difficile, perché come tutte le altre è un mosaico di storie, ma, come molte altre, è un'Africa legale.
Sono tanti - secondo un censimento della Questura 350, ma gli abitanti sanno che sono molti di più, forse addirittura 600. Sono i profughi di Somalia, Etiopia, Sudan. Uomini, donne e bambini che si dividono i quattro piani di un ex ospedale privato in corso Peschiera, nel cuore di Torino, dove si sono insediati alla fine dello scorso anno, dopo mesi di girovagare. Un destino comune a molti migranti che raggiungono il nostro paese in fuga da guerra e povertà, ottengono un permesso e piombano in un limbo surreale. La storia infinita dei richiedenti asilo rappresenta il paradosso di una legislazione che accorda loro un diritto ma che intorno a questo diritto crea il vuoto.
Legali, regolari, protetti - solo formalmente -a tutti gli effetti, dal momento in cui hanno fatto il fingerprint (le impronte digitali prese dalle Questure delle località in cui arrivano, spesso Lampedusa o Crotone), comincia la loro schiavitù di uomini liberi. Liberi dì muoversi, scegliere una destinazione, che molto spesso è il Nord. Liberi di partire, senza un soldo in tasca.
Una rete solidale diffusa che colma l'assenza delle istituzioni.
II pomeriggio del 16 ottobre 2008 i ragazzi africani occupano l'ex clinica San Paolo. Si sistemano nei locali abbandonati, nelle vecchie camere di degenza, dove sono abbandonate alcune apparecchiature sanitarie. All'inizio la struttura sembrava un edificio sventrato da un bombardamento, con macerie e squarci di intonaco dappertutto, porte sfondate, rifiuti. Qualche materasso sporco, divani, coperte sfibrate dal tempo.
Ogni camera è diventata rifugio per tre, quattro persone. «Meglio così che per strada» commentano i ragazzi. Sulle porte hanno scritto i loro nomi, «così tutti sanno che le stanze sono occupate»: Mohammed, Yusuf, Ahmed. Da parte delle istituzioni molte parole ma pochi fatti (l'offerta di alcuni letti e il passaggio dal banco alimentare), mentre un'efficiente rete di solidarietà, formata da associazioni - tra le quali il gruppo di Emergency Torino - centri sociali e singoli, si è attivata quasi da subito, apportando alla struttura alcune migliorie e offrendo loro perlomeno una speranza di vita migliore. Ogni piano ha una cucina ancora funzionale. L'impianto idraulico ed elettrico è stato rifatto dai ragazzi dei centri sociali (Gabrio e Askatasuna), in modo da garantire luce in ogni stanza e un punto acqua per ogni piano.
Ma i giovani dei centri sociali sono stati da sempre osteggiati dal Prefetto: «Mi rifiuto di trattare sulla gestione giuridica e sul futuro dei profughi con qualunque delegazione comprenda i rappresentanti dei circoli e dei centri sociali», aveva detto il rappresentante del governo, Paolo Padoin, durante i primi giorni del! emergenza. Da quel momento la questione si è ingarbugliata, perché nessuno sembrava avere i requisiti necessari per sedersi al tavolo negoziale con le autorità. Alla fine, un censimento organizzato dallo stesso prefetto ha consentito di verificare che i residenti abusivi della San Paolo sono tutti «richiedenti asilo», e le acque si sono relativamente calmate. L'ostracismo del Prefetto è apparso a molti miope e insensato, ingabbiato in un formalismo legalitario di fronte a un gruppo di persone che hanno gestito l'emergenza e l'occupazione, offerto da dormire e da mangiare. I giovani dei centri sociali sono così diventati veri e propri mediatori culturali che si sono sostituiti all'inerzia o all'assenza di istituzioni e organismi che avrebbero dovuto garantire a quei profughi tutte le garanzie stabilite dalle Convenzioni di Ginevra.
Dall'Africa all'Italia, un peregrinare senza sicurezze né prospettive
«Quando me ne sono andata dalla Somalia - racconta Marian Bubakar - speravo di trovare una situazione migliore di quella che ho trovato. Certo, nel mio paese c'è la guerra, ma io qui non ho ancora la cittadinanza. Mia sorella, che sta in Inghilterra, l'ha ottenuta dopo cinque anni. Ho sempre lavorato, ma in nero, perché il programma di assistenza italiano ti tiene sei mesi e poi ti abbandona. E senza residenza o cittadinanza nessuno ti offre un lavoro, lo facevo la badante per le signore anziane. Quando morivano, dovevo ricominciare da capo a cercarmi un altro lavoro».
Ali Assan, somalo anche lui, parla italiano come molti connazionali (la Somalia conobbe la dominazione italiana dal 1905 al 1941): «Perché siamo qui? Perché fuggiamo dalla guerra. Abbiamo attraversato il deserto, ci siamo imbarcati in Libia e abbiamo speso duemila dollari per venire. Cosa abbiamo trovato? Personalmente ho girato quattro città, Ragusa, Firenze, Milano e Torino, ma non ho mai dormito su un vero letto. Ho tutti i documenti a posto: è normale vivere così?». In un documento presentato alle autorità cittadine al momento dell'occupazione, gli immigrati della San Paolo rivendicavano il diritto ad avere almeno un posto in cui poter costruire la loro casa.
Nel ringraziare la rete di solidarietà che li ha aiutati, gli immigrati spiegavano che «ci sono cose, come per esempio il riscaldamento, dove la solidarietà dei singoli (siano persone o gruppi di associazioni) non può arrivare. Qui entrano in gioco le responsabilità delle istituzioni, dalle più vicine alle più lontane. La nostra volontà è quella di avere una casa; per poter vivere dignitosamente, cercare un lavoro e accedere a servizi che ci spettano di diritto chiediamo una soluzione reale per poter avere la residenza».
Un riconoscimento solo formale dei diritti fondamentali
II riconoscimento dello status di rifugiato è regolamentato dalla legge n. 39 del 1990. Chi ha ottenuto il riconoscimento ha diritto a contributi per la prima accoglienza: sostentamento, salute e cure mediche, sostegno allo studio, integrazione dell'attività lavorativa. Il contributo economico di 27,89 euro al giorno viene erogato a chi ne fa richiesta (può presentare domanda chi non ha potuto essere accolto nei centri finanziati dal fondo nazionale, cioè i centri governativi) e a ogni componente del nucleo famigliare per un massimo di 35 giorni.
Il contributo viene suddiviso in due rate: la prima di 557,80 euro a persona, per 20 giorni; la seconda di 418,35 euro per i rimanenti 15 giorni. Nella maggior parte dei casi, le persone ospitate al San Paolo hanno un permesso umanitario della durata di tre anni. Questo permesso consente al titolare la permanenza sul territorio italiano e l'inserimento nei sistemi di protezione (Sprar) che forniscono - o dovrebbero fornire - accoglienza, scolarizzazione e inserimento nei percorsi di lavoro per sei mesi. Per chi segue questo itinerario è prevista anche la concessione della residenza.
Il punto critico di questo programma è che i posti disponibili non sono sufficienti a coprire tutte le richieste.
Respingimenti e leggi restrittive: nessuna tutela dei diritti dei richiedenti asilo.
Lo scorso anno il ministro dell'Interno Maroni dichiarò che il fenomeno dei richiedenti asilo celava un ingresso di irregolari, in un paese già sotto accusa da parte dell'Unione Europea per i respingimenti forzati. Fu subito smentito da Italo Siena, responsabile del Naga Hard\ Milano, associazione che si occupa proprio della tutela per i richiedenti asilo: «Si tratta di una falsità: ogni anno almeno l'80 per cento di coloro che in Italia ne fanno domanda ottiene una protezione internazionale. Le richieste annuali in Italia sono circa 14 mila, almeno il 10 per cento dei richiedenti ottiene subito asilo politico, mentre a un altro 40 per cento viene accordata dalla commissione competente la protezione di tipo umanitario o sussidiario. Se a questi aggiungiamo anche quanti hanno fatto ricorso dopo il rifiuto della commissione, arriviamo all'80 per cento di domande accettate». Anche Amnesty International, nel suo Rapporto 2009, non lesina critiche alla politica dell'Italia nei confronti dei migranti: «I richiedenti asilo sono sottoposti nel nostro paese a una detenzione de facto, priva di basi legali certe e di controllo giudiziario».
Aggiunge Claire Weise, Presidente della sezione italiana di Amnesty. «La politica italiana dell'immigrazione e i respingimenti dei rifugiati che arrivano con le barche in alto mare è espressione di disprezzo dei diritti umani e delle persone veramente disperate che qui cercano aiuto».
LUCA CALASSI Peace & Reporter
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